L’inchiesta con al centro Alfredo Romeo, imprenditore napoletano, viene chiamata “Magnanapoli”, simpatica espressione inventata – “un po’ per gioco”, dicono i giornali – dai magistrati della procura. Il processo è breve ed esemplare, e le condanne subito comminate: le gazzette decretano l’esistenza del “sistema Romeo”, pensosi editorialisti si stracciano le vesti sulle sorti della povera Napoli.
Bilancio operativo dell’autunno 2008: un morto suicida, imprenditori, funzionari e politici incarcerati, assessori dimissionari. Con vivi complimenti ai magistrati, che passano carte che non devono passare, dichiarano, si esibiscono. E ai giornalisti, che riempiono senza fatica e senza morale intere paginate.
Concluso brillantemente il processo mediatico, comincia per i magistrati il lavoro meno divertente: bisogna dimostrare che effettivamente Romeo è a capo di un’associazione a delinquere. Così lo sbattono in galera per 79 giorni. Ma non trovano uno straccio di prova per le accuse mosse. Che erano pesantissime: associazione a delinquere, corruzione, turbativa d’asta. In tutto, dodici capi d’accusa, che coinvolgevano lui e diversi politici partenopei.
Stamattina la sentenza. Agenzie e giornali titolano: Romeo condannato a due anni. Tutti gli altri (politici, funzionari, consulenti) sono stati assolti. Condivide il destino di Romeo soltanto l’ex provveditore alle opere pubbliche Mario Mautone. Un po’ poco per un corruttore matricolato, per l’inventore del famigerato “sistema Romeo”, per il capo di una cupola politico-affaristica che ha rischiato di travolgere la giunta Iervolino.
E infatti la verità è che anche Romeo è stato assolto, da 11 capi d’accusa su 12, e il teorema della procura, subito fatto proprio dalle gazzette, è andato miseramente in frantumi. L’unico reato di cui si è macchiato il terribile Romeo, e per il quale è stato condannato, è aver raccomandato due operai. Giudici e giornali farebbero bene a riflettere.