Napoli, l’Italia, l’Africa

Da quando è finita la mia breve esperienza di amministratore in Campania, ho cercato di non esprimermi su Napoli. Intanto perché verso la mia città nutro sentimenti troppo forti per parlarne con adeguato distacco. E poi perché nel mio caso sono sempre in agguato i ri-sentimenti: ecco come siamo finiti, quanti errori sono stati commessi e quanti ancora se ne fanno. Con annessi corollari: io l’avevo detto, d’altronde cosa c’era da aspettarsi. E relative, implicite e penose conclusioni: ci vorrebbe ben altro, io avrei fatto diversamente, ecc…

Poi improvvisamente succede, come in questi giorni, che tanti classici temi napoletani tornano insieme alla ribalta. Si scoprono le infornate di assunzioni clientelari, le prebende in articulo mortis per i sodali del regime, i dissennati sforamenti di bilancio, gli improbabili annunci di grandi eventi che non si faranno, compreso il progetto di Bagnoli futura, che torna, come Nosferatu, a popolare gli incubi dei napoletani. Sono tipici scossoni da cambio di regime. I nuovi arrivati sostengono che finalmente si scoperchia il malgoverno di Bassolino. La sinistra riprende la stanca litania sul “vecchio che torna”, un suo must. Nessuno si interroga sulla vera natura del disastro degli ultimi venti anni. Che però ha la bontà di manifestarsi più o meno in contemporanea, quando la manovra di Tremonti annuncia il mancato finanziamento di qualche piccolo santuario locale.

A questo punto tutti insieme appassionatamente, senza distinzioni, destra e sinistra, intellettuali intorpiditi e politici da giaculatoria, entrano in azione dando il meglio di sé. Cominciano a scorrere le eterne lacrime napoletane: Roma ci toglie risorse, il Sud è abbandonato a se stesso, siamo negletti e sacrificati. Si leva il noto spleen: lamentoso, gregario, senza dignità.

Dignità, invece, ne ha da vendere Dambisa Moyo, giovane economista e consulente originaria dello Zambia. Ha scritto La carità che uccide, un bel libro che racconta gli enormi danni provocati dagli aiuti pluridecennali del mondo sviluppato all’Africa subsahariana. Un fiume di denari – qualcosa come 1000 miliardi di dollari – distribuiti dagli anni ’50 ad oggi in forma di progetti di cooperazione, aiuti umanitari, sostegni assistenziali, con l’entusiastico avallo delle stelle del pop occidentale, di associazioni terzomondiste foraggiate dagli Stati e di tanti politici con la lacrimuccia facile. I soldi avrebbero dovuto portare benessere, crescita, sviluppo. Hanno invece stroncato un mercato già asfittico, hanno aumentato la povertà, hanno diffuso corruzione a piene mani.

La Moyo sostiene una ricetta radicalmente diversa per lo sviluppo dell’Africa. Basta con gli aiuti assistenziali e a pioggia. Bisogna spingere gli investimenti stranieri, creare opportunità per l’esportazione dei prodotti locali, allargare lo spazio del microcredito, concedere incentivi a chi intraprende in uno spirito di competizione e di crescita del mercato. Cose che da qualche parte cominciano ad accadere, grazie ad investitori cinesi, indiani, brasiliani, con effetti benefici sull’economia di parti della regione.

L’Africa subsahariana ha grosso modo 800 milioni di abitanti, e ha ricevuto 1000 miliardi di dollari in 50 anni. La Campania di abitanti ne ha 6 milioni, e negli ultimi 20 anni di miliardi (di euro) ne ha ricevuti 20. Dall’Unione europea o dallo Stato, in forma di fondi Por, Pon, Fas, e così via. Fate da soli i conti. Così, giusto per capire quanti soldi sono arrivati pro capite, e se ne sono stati destinati di più ai nostri fratelli africani o a noi. E poi guardatevi intorno, cari compaesani. Non vi sembra che anche da noi, fatte le debite proporzioni, le cose siano peggiorate? Gli indicatori socioeconomici questo dicono. E quanto alla civiltà complessiva dei luoghi che abitiamo, beh, ne parliamo al prossimo post.

Conclusione. Solo il mercato salverà l’Africa. Solo il mercato salverà Napoli. Una città la cui storia sembra scritta per il mercato, per esaltare la creatività, lo spirito di impresa, la voglia di emergere e crescere. E che invece è stata avvilita e spenta non da un uso sbagliato (come si sostiene con ipocrita pudicizia) del denaro pubblico, ma dalla sua stessa esistenza. Imprenditori con la mano tesa ad aspettare contributi, disoccupati di professione in corteo per l’assistenza, vecchi giovani in fila per il prossimo concorso pubblico. Che l’Unione europea ci salvi nel 2013, quando i Fondi finiranno: nessuno pensi a prorogarli. Nel frattempo ci salvi Tremonti, con un po’ più di coraggio. Lavori, senza concessioni a pressioni, corporazioni, lamentazioni, ad estirpare, nel Sud, la maledetta cultura dell’assistenza.