La caduta del primo governo Prodi, il 9 ottobre 1998, è una ferita che non si è rimarginata. Probabilmente perché era il primo governo di sinistra della storia repubblicana. E perché sulle circostanze della caduta, così come sugli eventi che seguirono (culminati con l’entrata a palazzo Chigi di Massimo D’Alema), circolarono fin d’allora, e ancora circolano, molte voci, molte indiscrezioni e molte leggende. E’ come se quel giorno si fosse consumato non un atto politico pur importantissimo, ma un’autentica rottura nel tessuto politico e psicologico del centrosinistra italiano.
L’intervista di Carlo Azeglio Ciampi al Corriere di oggi, che riprende e approfondisce un passaggio del libro-intervista del presidente emerito (Da Livorno al Quirinale, a cura di Arrigo Levi, Il Mulino), riapre la vicenda da un altro punto di vista.
Ciampi si definisce “un corpo estraneo” alla politica italiana, e porta come prova regina proprio gli avvenimenti dell’ottobre 1998. “Mi fu chiesto – racconta Ciampi – di guidare il governo, e quell’incarico sfumò nell’arco di pochissime ore, senza che sapessi perché. Un mistero che né D’Alema né Prodi mi hanno mai svelato. La verità, ne sono convinto – prosegue Ciampi – è che la mia presenza a palazzo Chigi non era gradita a troppa gente. A cominciare dalla mafia, come dimostrò la stagione delle bombe cominciata nel maggio ’93, nella mia prima esperienza da premier. Cinque anni dopo, la via d’uscita per sbarrarmi le porte di palazzo Chigi fu di farmi andare al Quirinale”.
Gran bella via d’uscita, verrebbe da dire (Berlusconi ci metterebbe la firma); così come si potrebbe obiettare che suona poco credibile una mafia che blocca Ciampi per prendersi D’Alema, salvo poi mandarlo al Quirinale. Ma, al netto di queste piccole ingenuità, che in definitiva confermano quanto Ciampi, effettivamente, sia un “corpo estraneo” alla politica italiana, le dichiarazioni del presidente emerito aprono un caso.
Noi, che in quei mesi lavoravamo con D’Alema, ricordiamo una storia diversa.
Dopo la caduta del suo governo per mano di Bertinotti (313 no contro 312 sì), Prodi andò a Bologna, dove tenne un animato comizio insieme a Walter Veltroni, al termine del quale, non senza enfasi, e anzi gridando con quanto fiato aveva in corpo, spiegò che non avrebbe mai e poi mai accettato l’incarico per un nuovo governo.
L’indomani D’Alema prese un treno per Bologna. Lo scopo della missione era molto semplice: convincere Prodi a riprovarci, cioè ad accettare il reincarico dal Quirinale, e contemporaneamente gettare le basi per una nuova maggioranza parlamentare che compensasse l’uscita dei bertinottiani (Rifondazione si era spaccata a metà) con i voti dell’Udr di Mastella e Cossiga, nata qualche mese prima da una costola del Ccd di Casini, allora alleato di Forza Italia. Prodi ribadì il suo no, convinto che si dovesse andare alle elezioni anticipate, e D’Alema se ne tornò a Roma piuttosto preoccupato.
Il giorno dopo, dopo aver sentito e forse incontrato l’allora presidente Oscar Luigi Scalfaro, D’Alema andò a Santa Severa per parlare con Ciampi. Se il ministro del Tesoro avesse accettato l’incarico per un nuovo governo – questo il ragionamento di D’Alema – l’Ulivo avrebbe salvaguardato la propria continuità e la propria identità politica; e poi, dopo Prodi chi meglio di Ciampi, che aveva appena portato l’Italia nell’euro? Ciampi, come oggi ricorda lui stesso, non si disse contrario.
Tuttavia, non appena venne a sapere della disponibilità di Ciampi, Prodi cambiò repentinamente idea, e manifestò formalmente la disponibilità ad accettare il reincarico. Poiché gli spettava di diritto, Ciampi, da vero servitore dello Stato, tornò silenziosamente nell’ombra, e Prodi giocò le sue carte. Escluso il rientro di Bertinotti nella maggioranza, restava l’apertura a Mastella: che però Prodi non seppe o non volle cercare fino in fondo; fu in ogni caso Cossiga, con una dichiarazione fulminante, a far fallire il tentativo.
La situazione a questo punto rischiava davvero di precipitare verso le elezioni, e in condizioni decisamente svantaggiose per la coalizione di centrosinistra. In quelle ore si fece avanti l’ipotesi di un incarico al presidente del Senato, Nicola Mancino, che avrebbe dovuto dar vita ad un governo “istituzionale” sorretto però da una maggioranza limitata all’Ulivo, ai Comunisti italiani e all’Udr. Ipotesi precaria, e pasticciata, che rischiava di aprire più problemi di quanti ne risolvesse. Fu in quei giorni che D’Alema, un poco scoraggiato, disse dal palco del Costanzo Show che mai e poi mai i dirigenti dell’ex-Pci sarebbero andati a palazzo Chigi, perché “figli di un dio minore”.
Due giorni dopo, però, l’Ulivo (con un aiutino del Quirinale) scartò definitivamente la soluzione “istituzionale” e scelse invece di optare per una soluzione politica alla crisi. Il vertice della coalizione, presieduto da Romano Prodi e su sua proposta, approvò all’unanimità l’investitura di D’Alema. L’avversario più convinto dell’ipotesi Mancino era in quelle ore Veltroni, che vedeva nell’incarico al presidente del Senato un “ritorno indietro” a pratiche e procedure da Prima repubblica. Fu sempre in quelle ore che D’Alema offrì a Veltroni la segreteria del partito.
Per un’ironia della sorte, proprio l’elezione di Ciampi al Quirinale, la primavera successiva, segnò la fine politica del governo D’Alema. I candidati di cui si parlava allora, e che avrebbero consolidato l’equilibrio politico del nuovo governo, erano Rosa Russo Jervolino (preferita da Scalfaro) e Franco Marini. Prodi e Veltroni, con indubbia destrezza, giocarono d’anticipo la carta Ciampi. Il prestigio dell’uomo che aveva portato l’Italia nell’euro era superiore a quello di ogni altro possibile candidato, e Ciampi fu trionfalmente eletto il 13 maggio 1999, al primo scrutinio, con 707 voti su 990. Sei mesi dopo una crisi pilotata diede alla luce un secondo, più debole governo D’Alema. Il 25 aprile 2000 D’Alema rassegnò definitivamente le dimissioni.