L’Italia delle proroghe non sa fare le leggi

1. Schifo. Il problema è, prima di tutto, lessicale. Il decreto che – tra l’altro – prolunga la vita degli organi del Conservatorio dell’Aquila, del Commissario liquidatore delle Olimpiadi di Torino del 2006, del Commissario straordinario dell’Agenzia nazionale dell’autonomia scolastica, del Cocer, del Comitato per la verifica delle cause di servizio, della Commissione centrale per la definizione e applicazione delle speciali misure di protezione, del Consigilio nazionale della Pubblica istruzione, del Consiglio nazionale per l’Alta formazione artistica e musicale, dei contratti di servizio pubblico ferroviario, del Capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dei revisori dei conti dell’Enea, degli organi di amministrazione della Fondazione Gaslini, della Triennale di Milano, della Fondazione Giuseppe Verdi, dei Commissari straordinari delle fondazioni lirico-sinfoniche, dell’Istituto italiano di studi filosofici, dell’Istituto italiano per gli studi storici, dei giudici onorari di tribunale, dei viceprocuratori onorari, dei giudici di pace, degli operatori economici danneggiati dai fenomeni vulcanici dell’Etna, dei permessi retribuiti per i consiglieri di Roma capitale e per i consiglieri circoscrizionali delle città metropolitane, del personale marittimo delle Capitanerie di porto, del Commissario straordinario di controllo sull’assegnazione delle quote latte, della Rai di San Marino, dell’Agenzia per la gestione dell’albo dei segretari comunali, dei servizi abusivi di taxi e noleggio con conducente – prendo fiato – questo decreto si chiama, comprensibilmente, “milleproroghe”.

Una volta i decreti non avevano nome, si fingeva che fossero adempimenti tecnici “dovuti”: solo in circostanze eccezionali, quando ci ripulivano le tasche, diventavano “decretoni”. Successivamente, visto che contenevano norme che spaziavano in ogni dove, i decreti che accompagnavano le Finanziarie cominciarono a chiamarli “omnibus”: il latinorum conferiva una riserva di decoro. Ora, con uno slittamento progressivo della soglia del pudore, il sistema arriva a dichiarare la verità a partire dai titoli di testa: proroghe, cioè slittamenti, differimenti, rinvii.

Così si governa l’Italia. Con tre provvedimenti all’anno: la legge comunitaria (un calderone di norme attuative di disposizioni comunitarie), un decreto in materia fiscale (“decreto fiscale” o “decretone” o “collegato”) e il decreto di proroga termini (“Milleproroghe”) di fine anno. Mostri giuridici e politici su cui si concentrano gli assalti dei parlamentari: in media 2000 emendamenti in sede referente e almeno 500 in assemblea, per ogni decreto e per ogni ramo del Parlamento.

Quello che nessuno dice (più) è perché i governi (tutti) sono costretti a procedere così. Ci sono almeno tre ragioni: a) i parlamentari, nominati e non selezionati, non sono in grado di scrivere leggi nel 99% dei casi (noi li conosciamo, per il mestiere che facciamo); b) l’iter parlamentare di una legge è lungo e farraginoso a dir poco; c) il governo (qualsiasi governo), dovendo comprensibilmente fare l’agenda politico-mediatica, annuncia provvedimenti che, se non si traducessero in decreti, si impantanerebbero per sempre in Parlamento.

Conclusione: nessuna. Ci siamo stancati di dire che una classe dirigente seria dovrebbe semplicemente mettere mano ad una organica, globale riforma della Costituzione, delle istituzioni, del Parlamento.

2. Incertezza. A Torino si comincia a dire, a quattro giorni dalle primarie, che – se votano meno di 35mila persone – Fassino rischia. Cresce il timore del voto inquinato. Si temono (anche lì!) i signori delle tessere. Finirà come un mese fa a Napoli?

3. Meraviglia. Gasparri ha un po’ di raffreddore, e Omnibus diventa una pacata conversazione tra gentlemen. I partecipanti non si danno sulla voce, rispettando la menomazione di un contendente. Aprono gli interventi augurando a Gasparri di riprendersi presto, come a scusarsi preventivamente con il pubblico televisivo per l’assenza di urla. Non dicono granché, ma perlomeno a bassa voce.