Il mantra estivo recita: “Come sono mediocri, questi politici!”, colpevoli, agli occhi di tutti, dello sconquasso planetario.
Loro danno una mano: basta guardarli nelle loro apparizioni pubbliche. Colui che fu idolatrato qualche anno fa come il nuovo Messia del progressismo mondiale, si aggira per le campagne d’America inanellando (lui!) inaspettate gaffes comunicative. (Ah, avesse vinto la Clinton, forse un po’ dell’esperienza familiare di politica e mercati avrebbe aiutato…). Gli improbabili neo-dioscuri europei incrociano smarriti gli sguardi mentre giocano a imitare Kohl e Mitterrand, buttando giù frettolose e impraticabili proposte anticrisi. Nel frattempo, l’unico risultato che ottengono è contribuire ad inabissare le borse.
I nostri, al confronto, hanno più dignità. Uno si nasconde tra Arcore e non so dove, l’altro scappa dalle montagne che lo proteggevano, del commercialista di Sondrio si sono perse le tracce. I poveri peones si difendono, una ha detto: “Che pretendete da me, in fondo mi vengono in tasca solo tremila euro al mese”. Le Province si preparano a gonfiare i dati del prossimo censimento. I Comuni inventano per i giornali identità storiche prêt-à-porter. I capipartito dichiarano ai Tg e fuggono dalla realtà. Uscire dal guazzabuglio della crisi, rimettere in moto il Paese e così via: nessuno ci pensa, perché nessuno sa come fare.
C’è chi dice: eliminate le pensioni d’anzianità, vendete il patrimonio pubblico, liberalizzate il mercato del lavoro. Ma, posto che queste siano misure giuste (io lo penso), il problema è: chi le realizza? I politici di governo, giusto per perdere quel po’ di consenso che gli rimane? Impossibile. I politici tutti – destra, centro, sinistra – per prendere insieme le dolorose, necessarie decisioni, e spartirsi i conseguenti danni di immagine e elettorali? Irrealistico: ognuno spera che sia il proprio avversario a rimanere scottato. Allora – sostiene qualcuno – si ceda il posto ai tecnici. Non avendo da preoccuparsi del consenso, potrebbero approntare le necessarie cure da cavallo e poi lasciare. Già, ma chi li piazza lì, e come se ne vanno quelli che ora sono al comando, e chi li vota ‘sti tecnici in Parlamento… Insomma, la conclusione inevitabile – anche sotto il solleone strombolano, che comunque non favorisce riflessioni lucide – è che non c’è niente da fare.
Ed è vero, in Italia e nel mondo. Ma, diciamoci la verità, non perché i politici siano “mediocri”, magari a causa del fatto – come dice Galli della Loggia sul Corsera – che non si sono forgiati in una guerra. Intanto – come si sa – i politici non sono altro che “lo specchio della società”. Nel bene e nel male: ne abbiamo innumerevoli, quotidiane prove. In secondo luogo andrebbe dimostrato che altre categorie ne hanno azzeccate di più, in questi anni. Gli economisti? I banchieri? Le società di rating? I cenacoli di Davos? Gli Ambrosetti, gli Italianieuropei, le Italiefuture? Editorialisti, politologi, sociologi? C’è una sterminata pubblicistica che attesta la coda lunghissima di previsioni fallimentari, scelte sbagliate e grottesche spiegazioni ex post che si sono succedute dopo la fine del Vecchio Ordine, protagonista l’intera opinion making mondiale, non solo gli scalfarini di casa nostra.
Il punto è che non c’è granché da capire o da fare, se non si avvia un ridimensionamento – verso l’alto e verso il basso – della politica su scala nazionale, che incide ormai nelle nostre vite poco, pochissimo, certamente molto meno che nel passato (per questo oggi ci danno fastidio i suoi eccessivi costi), ma rimane ancora l’ambito fondamentale della rappresentanza e della formazione dell’opinione pubblica. Mentre il cittadino è sempre più interessato, da una parte a non trovarsi l’immondizia sotto casa, dall’altra a capire se e come si può contrastare la crescita abnorme della popolazione mondiale, il dibattito pubblico si attarda nella grigia, superflua zona di mezzo nazional/statale.
In questo quadro, i politici sono l’ultimo dei problemi. Loro sono semplicemente quelli che ci mettono la faccia e pagano per tutti l’incomprensione di quello che ci accade intorno. Ultimi guardiani di una struttura del mondo che sopravvive a se stessa, fatta di Stati nazionali, Parlamenti inconcludenti e democrazie corporative: barriere artificiose che cercano inutilmente di contrastare la mobilità mondiale, libera e veloce, di merci, informazioni e capitali. Giapponesi nella giungla loro malgrado: basta guardarli e ascoltarli, appunto, per capire che (almeno i più intelligenti) sanno di combattere una guerra strapersa.
Perché il problema di fondo è che l’umanità è entrata nel futuro e la politica che abbiamo conosciuto nel futuro non è prevista, o – meglio – non sa che vestito dovrà indossare. Noi viviamo, signori, in un futuro presente magnifico, fatto di conoscenza e condivisione, di clamorose conquiste tecnologiche e scientifiche, di scambi continui e incessanti. Viviamo in diretta, da un ventennio, una rivoluzione che il mondo non ha ancora metabolizzato. E’ la rivoluzione della rete, nella quale siamo immersi anche se facciamo finta di niente: io scrivo in rete da Stromboli, su Skype parlo con mio figlio che sta in Israele, su Internet investo/irei (se avessi i soldi, nel frattempo pago le bollette), ordino cose da mangiare, partecipo a movimenti di opinione, vedo film, creo amicizie, in rete lavoro, etc… E’ un futuro di cui usufruiamo a piene mani e che ci fa vivere meglio di ieri, anche se le nostre umanissime paure ci impediscono di vederlo. (E che nessuno venga a dirmi: sì, ma dove è finita la socialità, la rete ci isola dal mondo vero, etc…; la vita virtuale su Internet non fa che aumentare a dismisura le opportunità della vita reale).
L’unica soluzione alla crisi della politica e del vecchio mondo è tuffarsi nel futuro presente senza remore. Non chiudersi dentro i propri finti confini (casa, scuola, etnia, nazione), ma spalancare le porte e sfruttare l’epocale salto tecnologico che stiamo vivendo per conquistare il nuovo mondo delle libertà. Non cercare di difendere le vecchie casematte della politica, ma costruire una nuova intelligenza politica del mondo globale. (Ammazza, che conclusione retorica!).