Monti 2013, votato dagli italiani

Al momento una buona parte di italiani – maggioritaria, stando ai sondaggi – approva l’operato di Monti e dei suoi ministri: un governo che andrà via, al più tardi nella primavera del 2013, per non tornare, essendo esplicitamente a termine e non legato ad alcuna prospettiva politica. Quindi gli italiani non potranno giudicare l’attuale governo. Né votare per le persone che lo formano.

Si dirà: finito il suo compito, è giusto che un governo “tecnico”, nato per affrontare una gravissima emergenza, vada via e si torni alla fisiologia della dialettica politica italiana, fondata sulla contrapposizione bipolare. Già. Ma da qui ad un anno potremo dare per risolta la crisi economica internazionale? Sarà stata effettivamente progettata una nuova governance europea? Si potrà ritenere completato il risanamento strutturale dei nostri conti pubblici e avviato il rilancio dell’economia?

Le risposte a queste domande sono – per quanto mi riguarda – piuttosto scontate. Per quanti passi avanti avremo compiuto, è difficile immaginare che nel 2013 le ragioni della nascita del governo dei professori saranno venute meno. Per questo penso che bisognerebbe trovare il modo per consentire il proseguimento dell’esperienza Monti e la sua trasformazione in un progetto compiutamente politico.

E’ altrettanto noto che una gran parte degli italiani non ha al momento alcuna fiducia nei partiti e nelle coalizioni che esprimono. I partiti lo sanno, e pare vogliano lavorare per tornare presentabili nel 2013, riducendo prima (forse) il numero dei parlamentari, e cambiando poi (forse) la legge elettorale. Imprese complesse, per disaccordi di merito, bizantini iter parlamentari e più che presumibili resistenze politiche.

Volendo comunque prendere per buone le intenzioni, il punto di fondo è che direzione prenderà – se e quando ci sarà – la riforma della legge elettorale. Se i partiti si intestardiranno nel riproporre uno schema bipolare, è evidente che non ci sarà spazio per la continuazione dell’esperienza Monti. A meno che non si pensi – come fa Veltroni, nella sua proverbiale superficialità – all’annessione di Monti a uno dei poli. Sarà invece possibile discutere più liberamente delle prospettive politiche, e si potranno anche schiudere diverse e interessanti prospettive di sistema, se si infrangerà il tabù del bipolarismo.

L’Italia approdò al bipolarismo sull’onda del dopo-Tangentopoli, utilizzando le leve teoriche del dibattito politologico degli anni ‘80, centrato sui temi della rappresentanza e della governabilità. Temi rilevanti, che il bipolarismo all’italiana ha – in buona sostanza – aggravato. Ad oggi la rappresentanza risulta assolutamente monca (sono fuori del Parlamento forze che rappresentano più del 15% dell’elettorato) e al tempo stesso frantumata (si è perso il conto dei partiti esistenti). Mentre la cosiddetta governabilità, formalmente garantita dalla durata media degli esecutivi, ha prodotto risultati disastrosi nel merito, consegnando un esorbitante potere di veto alle forze estreme, di destra e di sinistra. Per portare infine l’Italia sull’orlo del baratro.

E i pessimi risultati concreti sono niente rispetto all’ormai palese inconsistenza dei fondamenti “teorici” del bipolarismo. Che senso ha dividersi in poli quando la sfida essenziale dell’oggi e del domani consiste nella salvezza e nel presidio del territorio nazionale? Le politiche da attuare nella lunga emergenza hanno opzioni di “destra” e di “sinistra”? E, se mai queste opzioni ci sono, vivono nei perimetri degli attuali schieramenti? Naturalmente c’è chi lo pensa, ed è legittimo. Ma intanto non lo pensano le forze che sostengono Monti. Altrimenti – elementare, Watson – non lo sosterrebbero. Insieme.

Di qui il macroscopico paradosso nel quale siamo immersi. A rigor di logica, lo schema elettorale naturale per il 2013 sarebbe uno e uno solo: coloro che sostengono il governo dovrebbero presentarsi insieme al voto per continuare l’azione di risanamento avviata da Monti. Approdo logico ma impossibile da realizzarsi: per mille motivi che è superfluo elencare, Pd, Pdl e Terzo polo non sono in condizione di farlo. Quindi si divideranno. Anche se non si sa su che cosa, visto che ogni giorno votano insieme, e visto che chi vincerà farà (dovrà fare) le stesse cose che sta facendo Monti (magari peggio, considerata la qualità del personale).

C’è un’unica via d’uscita da questo paradosso. Ed è lo scioglimento dei poli, da favorire attraverso una nuova legge elettorale proporzionale.

Tutti sappiamo che in Italia non esiste una realtà bipolare consolidata. Ci sono due partiti di media grandezza con leadership deboli, costretti dalla legge elettorale vigente a creare coalizioni che consegnano un altissimo potere di veto delle estreme. Scenario che – a meno che non si superi un altro tabù, quello del doppio turno – si presenterà con certezza anche dopo il voto della prossima primavera.

Una nuova legge elettorale proporzionale consentirebbe invece ai partiti di misurare il proprio effettivo insediamento (con effetti benefici sul principio di rappresentanza e finanche di moralizzazione della loro vita interna). Ogni partito presenterebbe la propria piattaforma, un’ipotesi di alleanze, una proposta di leadership. Il governo nascerebbe effettivamente in Parlamento, come da Costituzione. E i partiti potrebbero scegliere – se armati di sufficiente umiltà e lungimiranza – di continuare ad operare saggiamente come si sta facendo, affidandosi ad una guida autorevole per uscire dall’emergenza in maniera strutturale e avviare un duraturo rilancio del Paese. Diventerebbe insomma possibile il ritorno di Monti al governo con una solida maggioranza politica.