Nuovismi e vecchismi

Forse è venuto il momento di parlare di vecchio e nuovo, le due categorie che regolano la temperatura politica dell’Italia da un po’ di tempo. Per la precisione dalla cesura traumatica e malgestita del 1992, quando un’intera classe dirigente fu azzerata da un golpe giudiziario. Da allora il sistema politico non è stato in grado di rimettersi in piedi. Avrebbe dovuto trovare una nuova legittimazione, scrivendo una nuova Costituzione (con la Bicamerale? Sì, con la Bicamerale, chi continua a non capirlo è un caprone) e fondando la Seconda Repubblica: un nuovo patto con i cittadini, nuove regole, una nuova rappresentanza fondata su nuovi partiti. Non è stato così, ed è cominciato il ventennale balletto del nuovismo, succedaneo e caricatura del nuovo. Avviato da Occhetto (il nuovo Pci, ridicolo ossimoro morto nel giro di qualche mese), proseguito da Segni, esaltato da Confindustrie, Repubbliche, Alleanze Democratiche, magistrati e starlette, fino a trovare l’apoteosi finale in Berlusconi e nelle sue controfigure di destra e di sinistra. Sempre senza un disegno. Che dico un disegno, senza un pensiero che fosse uno, una sola idea sul futuro di questo paese.

Che nel frattempo, per conto suo, invecchiava tragicamente (i dati, i dati! sulla demografia e sull’obsolescenza di tutto: struttura industriale, formazione, infrastrutture), seduto sugli allori (e sulle pensioni di giovinezza) della sua breve stagione di gloria, conclusa agli inizi degli anni ‘60 (sessanta).
Per queste semplicissime ragioni, e cioè per il mancato rinnovamento “infrastrutturale” di un sistema tecnicamente fallito, si è innescata in Italia la dialettica primordiale e prepolitica della contrapposizione tra “vecchio” e “nuovo”. Ci piace, non ci piace? E’ secondario. C’è. E anche le beneamate primarie vivono quasi esclusivamente di questa dialettica.

C’è il nuovo: ha 37 anni, si muove con agilità (un filino ipercinetico), è sfrontato e arrogante, parla come mangia (a volte direi come si mangiava negli anni ‘80, tipo panna e rucola, insomma; lì mi sembra fermo il suo orizzonte linguistico e semantico. Ma non sottilizziamo), vuole tagliare i rami secchi.
E c’è il vecchio: ha 61 anni (tre più di me, ma chiamatemi vecchio e vi faccio un culo così), si muove come trascinandosi, parla una lingua indefinibile (ma parleranno davvero così i contadini emiliani?), dice che vuole mettere i piedi nelle radici.

(Poi ce n’è anche un altro, che mette insieme il peggio del vecchio e del nuovo: porta l’orecchino e parla come Fogazzaro, difende fabbriche bollite e fa il benecomunista. Ma finirà schiacciato tra i due falsi autentici).

Ha voglia mio fratello (alcuni sanno di chi parlo, lui certamente) a dire che non è così, che da una parte c’è “un riformista consapevole della logica delle compatibilità”, dall’altra uno che “scommette sulle suggestioni”. Le immagini e i resoconti di Bettola dicono tutt’altro.

Foto in bianco e nero della famiglia alla fine degli anni ‘50. Il salotto di una casa con lampadario di cristallo e pasticcini sul tavolo. Colonna sonora con valzer e polka. La briscola. La pompa di benzina. L’officina. “Sapendo dove mettere il cacciavite”. Ha detto proprio così: “il cacciavite”. E la briscola, che non manca mai. Insomma una grottesca parodia del vecchio. Costruita con un’attenzione maniacale, per comunicare polvere, puzza di sigaro, odore di bollito. Il buon tempo antico. Anzi “la malinconia del tempo andato”, recita esplicitamente il titolo della fiction, protagonista il “riformista consapevole”, quello che non vive di “suggestioni”. Ammazza.

E’ una scelta cinica e consapevole, fratello, e magari sarà vincente. Perché parla alla pancia della sinistra italiana, tutta rimpianti, nostalgia e rancori. Quella che “non tradisce gli ideali della gioventù” e che, ancora una volta, viene oggi blandita per essere fottuta domani da un “riformista consapevole” che ammicca ai vecchi militanti “con il basco del Che” e prepara il vestito buono per incontrare Draghi e Schauble. E’ la storia di sempre. Una volta si chiamava doppiezza, e oggi non ne cambierei il nome.

Mi dirai minimizzando che Bettola è comunicazione. Certo, esattamente come i format renziani. Niente di più, niente di meno. Comunicazione che serve a raccattare voti lanciando dei messaggi. Il punto è che quelli di ieri sono di uno sconsolante, avvilente “vecchismo”, non preparano alcun “riformismo consapevole”, parlano semplicemente di un’Italia che non c’è più.

Tutto questo per dire, fratello, che il nuovismo continua non piacerci. Ma può esserci di peggio.