Dunque. Ve lo dico un attimo prima, indipendentemente dalla forma che assumerà la sua discesa in campo. E facendovi in contemporanea gli auguri per le feste, perché da domani mi dedicherò più o meno integralmente a ciociole natalizie e piccoli regali da crisi. Il 24 febbraio voterò per qualcuna delle formazioni che proporranno Mario Monti premier per la prossima legislatura. Quale tra quelle in campo non so: valuterò tasso di rinnovamento e qualità delle liste (dei programmi dei singoli partitini non mi frega niente).
Dopo un decennio, sono tornato a votare alle primarie del Pd sperando in una vittoria di Renzi: sarebbe stata una rottura epistemologica per la sinistra italiana. Avendone maturato il diritto, voterò anche il 29-30 dicembre nelle primarie dei parlamentari, giusto perché c’è un amico che si candida. Ma alle elezioni non voterò Pd, perché non condivido la sua attuale strategia e trovo più che contraddittori i suoi comportamenti, rispetto all’unico (ripeto, unico) tema in discussione a questo giro: l’adesione dell’Italia agli impegni presi nei confronti dell’Europa. Impegni inequivoci e indiscutibili: tagliare la spesa pubblica, liberalizzare l’economia, riformare il lavoro, sburocratizzare lo Stato.
E’ inutile fingere. Per quanto fumo con la manovella metta in circolazione, il Pd questi impegni non li fa suoi, o gioca con le parole. Di tagliare la spesa pubblica non ha alcuna intenzione, perché qualunque atto significativo in questa direzione viene interpretato come assalto a “diritti” non derogabili. Riformare il lavoro e sburocratizzare lo Stato significherebbe semplicemente disboscare il potere sindacale, e quindi neanche a parlarne. Quanto alle liberalizzazioni, il Pd se ne fa vanto in ricordo delle mitiche lenzuolate di Bersani. Ma guai a chiedere che fine hanno fatto, visto che tassisti e avvocati, assicuratori e notai sono oggi più forti di prima.
E gioca con le parole il Pd, quando garantisce che sì, terrà fede all’agenda, ma andando “oltre”, mettendoci “un di più” di lavoro, puntando su “crescita” ed “equità”. Parole totalmente vuote e prive di senso, se non si prevedono tagli alla spesa e conseguente liberazione di risorse per promuovere “crescita” (ammesso e non concesso che debba farla lo Stato, la crescita), smantellamento delle corporazioni (a partire da quella sindacale) per creare occasioni di lavoro per i giovani e quindi “equità”, e così via.
Insomma, l’agenda è una, c’è poco da girarci intorno. Se non la si condivide, lo si dice, come fa a suo modo Berlusconi, e si occupa mestamente lo spazio del populismo corrivo. In caso contrario, la si applica. Quello che non si può fare è cincischiare come Bersani, che in cuor suo pensa che l’agenda non abbia alternative, ma non è in grado di dirlo alla sua gente, diseducata da decenni di demagogia e dal sinistrismo dei luoghi comuni che non muoiono mai.
Quindi, se il 24 febbraio del 2013 l’ordine del giorno recita, come recita: “Attuazione dell’agenda Draghi-Trichet (5 agosto 2011) e seguenti, vibranti raccomandazioni dell’Unione europea”, non resta che una risposta: affidarsi al professore che se l’è intestata, per realizzarla e restare aggrappati all’Europa.
Di fronte a questo solo imperativo, le chiacchiere querule della politica italiana sono un fastidioso pulviscolo. Si deve candidare direttamente oppure no. Saranno due, quattro o venti le liste che lo appoggeranno. Saranno laici o cattolici. Tecnici o politici. Moderati o estremisti, riformisti o radicali. Vecchi o nuovi. Tutta roba di scarso rilievo. L’essenziale è l’adempimento di quell’ordine del giorno.