L’editoriale di Panebianco sul Corriere di stamattina. Come dargli torto?
Le reazioni del partito della spesa pubblica di fronte alla affermazione di buon senso, e inoppugnabilmente vera, del viceministro all’Economia Stefano Fassina secondo cui esiste, accanto a una evasione indotta da avidità e mancanza di senso civico, anche una evasione fiscale «di sopravvivenza», sembrano dettate dall’arroganza: quella tipica arroganza che è propria di chi, ritenendosi fortissimo, può permettersi il lusso di ringhiare davanti a qualche timido distinguo dalla linea dominante e vincente.
C’è il forte sospetto che sia ormai inutile continuare a ripetere, come facciamo da anni, la solita litania: «Bisogna ridurre la spesa pubblica al fine di abbassare le tasse e rilanciare così la crescita».
Il partito della spesa pubblica non ha alcun interesse alla crescita perché non può accettare che spese e tasse scendano. Fino a oggi, quel partito si è rivelato fortissimo, imbattibile. Ci sono due possibili spiegazioni, non necessariamente incompatibili fra loro, di tale imbattibilità. La prima ha a che fare con le «quantità» e la seconda con la «qualità». La spiegazione quantitativa dice che i numeri sono a favore del partito della spesa pubblica: coloro che vivono di spesa sopravanzano ogni altro gruppo e rappresentano, sul piano elettorale, una «minoranza di blocco» ai cui veti nessun governo, quale che ne sia il colore, può resistere. La spiegazione qualitativa fa riferimento all’esistenza di «cani da guardia», di istituzioni strategicamente collocate che si sono assunte il compito di salvaguardare gli interessi facenti capo al partito della spesa pubblica. Per esempio, guardando a certe sentenze della Corte costituzionale, si può essere colti dal sospetto che sia addirittura «incostituzionale» ridurre la spesa pubblica (e quindi le tasse), ossia che, per il nostro ordinamento, quelle due grandezze possano solo crescere, mai diminuire. Più in generale, c’è una intera infrastruttura amministrativa (alta burocrazia, magistrature amministrative) che regge e dà continuità alla azione dello Stato, che sembra chiusa a riccio nella difesa di un equilibrio politico e sociale fondato sulla incomprimibilità della spesa e su tasse altissime. La debolezza della politica fa poi il resto, rende impossibili interventi capaci di vincere le resistenze burocratiche e lobbistiche e invertire la rotta.
Lorenzo Bini Smaghi (Corriere, 27 luglio) ha osservato che nella lettera della Bce all’Italia di due anni fa si chiedevano riforme strutturali (tese appunto a ridurre la spesa pubblica). Non potendo, non volendo, o non sapendo, fare quelle riforme, noi rispondemmo aumentando le tasse e perciò spingendo ancor di più il Paese nella spirale della depressione.
Sulla carta, il governo Monti era nella condizione migliore per ridurre la spesa. Per sua natura, non dipendeva dal consenso elettorale e, inoltre, avrebbe potuto imporre le riforme ai partiti sfruttando la condizione d’emergenza in cui si trovava il Paese. Perché non ci riuscì? Perché accrebbe ulteriormente una pressione fiscale già altissima? Non è forse perché gli ostacoli erano talmente grandi, e le forze contrarie così potenti, da non poter prendere in considerazione alcuna altra linea di condotta se non quella che venne effettivamente perseguita?
Sarebbe bello vivere in un Paese fondato su un regime di tasse basse ove non esistesse l’evasione da sopravvivenza e dove fosse possibile scaricare uguale riprovazione morale sugli evasori fiscali e su coloro che fanno un uso non strettamente necessario, non giustificato dalla funzione sociale assolta, dei soldi pubblici. Viviamo invece in un Paese in cui spese e tasse si rincorrono senza fine lungo una strada in salita. Sorvegliate amorevolmente da cani da guardia indifferenti alla decadenza economica del Paese. Ai membri del partito della spesa pubblica bisognerebbe dire: grazie a voi siamo oberati di tasse e non intravvediamo un bel futuro per i nostri figli. Abbiate almeno la decenza di non ringhiare.