L’alata opinione di Vittorio Grilli. Un mare di chiacchiere per concludere con la solita cazzata ipocrita e autoassolutoria dell’evasione fiscale. Per il resto ci pensino a Bruxelles. Noi non siamo in grado, dice uno che ha fatto il ministro in Italia. (dal Corriere di stamattina).
Il cammino che porta alla crescita passa per una tappa fondamentale: la riduzione delle tasse. In un Paese a forte debito come il nostro, questo significa riuscire a tagliare la spesa pubblica. Un obiettivo sempre ribadito dagli ultimi governi ma che non ha dato i risultati sperati. Non si tratta solo di poco impegno degli esecutivi o scarsa volontà del Parlamento o azioni di sabotaggio da parte della burocrazia. In realtà, quando dalle parole si passa ai fatti, i tagli alla spesa pubblica lasciano perplessi un gran numero di italiani. Lo scambio spesso evocato tra riduzione della spesa e quindi delle imposte non è automatico ma solo presunto, e comunque da esso non tutti sono certi di guadagnarci. Qualche numero. In Italia, la spesa pubblica primaria, cioè al netto degli interessi sul debito pubblico, è circa il 45% del reddito nazionale (Prodotto interno lordo, Pil). Le sue componenti principali sono: pensioni 20% del Pil, stipendi pubblici 10%, sanità 7%, scuola e università 4%, pubblica sicurezza 2%. Ogni anno la maggioranza degli italiani beneficia direttamente di questa spesa ricevendo trasferimenti in denaro (stipendi e pensioni) e/o servizi di primaria importanza. A fronte di una popolazione adulta di circa 49 milioni contiamo: 16,7 milioni di pensionati (incluse le pensioni assistenziali e quelle di invalidità), 3,3 milioni di dipendenti pubblici, cui va aggiunto un numero rilevante di dipendenti di società pubbliche. Sono oltre 10,5 milioni i bambini e i ragazzi che frequentano le scuole, da quelle dell’infanzia fino alle università. Milioni i pazienti del servizio sanitario: i soli ricoveri ospedalieri sono circa 8 milioni ogni anno, con una degenza media attorno ai 7 giorni. Sono decine di milioni i passeggeri che utilizzano il trasporto pubblico. La pensione può essere scarsa, lo stipendio statale insoddisfacente, la qualità della scuola, della sanità, dei trasporti lasciare a desiderare. Ma anche se carenti, l’istinto è di tenerseli stretti. Difficile convincere che per diminuire in futuro le tasse (ma quando, quali e a chi?), si debba tagliare oggi la spesa pubblica (quale, a chi?), con il pericolo di ridurre ulteriormente ciò che è spesso percepito come inadeguato. Per vincere queste resistenze occorre portare altri argomenti. Quando si propone di rivedere la spesa pubblica bisogna innanzitutto spiegare come si intende migliorarla, cosicché i tagli non implichino riduzione dei servizi essenziali al di sotto del livello di guardia. In Italia il livello della spesa è in linea con la media europea (46%). Nei Paesi scandinavi, non noti per essere dissipatori di risorse pubbliche, la spesa è più alta: in Svezia il 50% del Pil, in Finlandia il 54%, in Danimarca 56%. Nella stessa Francia è oltre il 53%. Quando ben gestita e usata in modo scrupoloso per offrire servizi di qualità, la spesa pubblica può essere valido sostituto del reddito personale. Il problema è dunque quanto si spende ma anche come, e il rapporto qualità/prezzo dei servizi pubblici in Italia è purtroppo scadente. Non si tratta solo di lotta agli sprechi. Abbiamo anche un cattivo assetto del sistema pubblico. Tre i motivi: l’evasione fiscale, l’inefficienza dei servizi pubblici, le duplicazioni di amministrazioni e programmi di spesa. Primo, l’evasione fiscale fa sì che quel 45% di reddito nazionale consumato in spesa pubblica non costi (in media) agli italiani onesti il 45% del proprio reddito come dovrebbe, ma molto di più. In Italia l’evasione ammonta a circa il 20% del Pil. A chi le tasse le paga, il servizio pubblico costa circa il 20% in più, cioè in media quasi il 55% e non il 45% del proprio reddito. Mentre chi evade le tasse paga i servizi molto meno, qualcuno anche niente. Ciò è ingiusto e irragionevole. La prima urgenza è rafforzare il contrasto all’evasione affinché ciò che costa 45 venga da tutti pagato 45. Secondo, la qualità media dei nostri servizi pubblici non giustifica il suo costo. L’evidenza in questo campo è ampia. Banca d’Italia ha svolto molti studi in materia da cui emergono notevoli ritardi in pressoché tutti i maggiori settori: istruzione, sanità, giustizia, trasporti pubblici. Mentre nel privato la concorrenza assicura l’allineamento tra qualità e costo, nel pubblico questa automaticità non esiste. Si possono introdurre meccanismi che lo garantiscano. Il primo, insostituibile, è l’applicazione senza eccezioni del principio del merito. I meccanismi burocratici di reclutamento, le difficolta nel disegnare progressioni di carriera legate a capacità e risultati alimentano nel settore pubblico una cultura autoreferenziale interessata più ai processi amministrativi che alla soddisfazione dell’utenza. Con gli strumenti informativi e di verifica oggi disponibili si possono fare grandi passi in poco tempo. Ciascun settore ha certo le sue specificità, ma in nessun caso tali da potersi sottrarre, come spesso accade, al principio meritocratico. Terzo, esistono duplicazioni e ridondanze che non hanno ragion d’essere. Programmi e centri di spesa devono essere accorpati e ristrutturati. Il riassetto dei livelli di governo, tra cui la riforma delle Province, sono un importante esempio. Ma vi è molto di più da fare, soprattutto a livello europeo. È difficile oggi pensare che nell’Unione Europea, e a maggior ragione nell’area dell’euro, abbia ancora senso avere programmi nazionali in settori strategici dove sono così evidenti la dimensione europea, le economie di scala e di scopo. Tra essi la difesa, la ricerca, le infrastrutture, l’energia, l’ambiente. Sarebbe più sensato procedere alla loro integrazione, e in molti casi unificazione, su scala europea. Non solo migliorerebbe il servizio ma si genererebbero anche rilevanti risparmi di spesa. Per avere successo il riordino della spesa pubblica deve avere quale elemento prioritario la correzione di queste criticità. Solo così gli italiani potranno convincersi che meno spesa pubblica potrà significare più qualità nei servizi, meno tasse e quindi più crescita.