La nuova geografia del lavoro

geografiala oroAlcuni dei miei migliori amici – di vecchia militanza politica e di attualissimi affetti – vengono da una formazione e una cultura industrialista, e ancora ce l’hanno. La rocciosa scuola del Pci aveva insegnato a tutti che al di fuori della fabbrica c’era ben poco di interessante. Per amor di Dio, l’alleanza con i “ceti medi” era cruciale, a un certo punto Sylos Labini ci aveva detto di nuove articolazioni delle “classi sociali”, e da un certo momento in poi “terziario” non fu più una parola appaltata a verbosi sociologi. Ma il centro di tutto restava lì, nella fabbrica, nel luogo dove si producevano “cose”. (Lo so, sto parlando di 40 anni fa, ma il teorico della “centralità operaia” è stato nominato in Parlamento dal Pd 6 mesi fa).

Senza essere Tronti (per fortuna loro e mia), ma da liberali e riformisti, ancora oggi questi miei amici pensano che non sia possibile immaginare un futuro dell’Italia senza un apparato industriale significativo. E questo diventa un discrimine, anzi il discrimine. Per cui a volte arrivano anche a difendere oltre la soglia della ragionevolezza insediamenti produttivi che non hanno più senso, aziende decotte o in via di decomposizione. Sempre in omaggio alla necessità che il paese abbia un'”armatura” industriale purchessia.

In loro – come in tanti – prevale ancora l’idea di un mondo fisico, concreto (il licenziato di “The Company Men” che dice: “Qui noi fabbricavamo cose vere”) contrapposto ad un mondo immateriale, virtuale. Un mondo solido e vero di cui si teme la scomparsa, soprattutto in assenza di alternative (almeno in Italia, dove abbiamo distrutto le sole imprese innovative – computer e farmaceutica – che avevamo).

A questi miei amici e a tutti consiglio la lettura di questo libro di Enrico Moretti che spiega – in modo semplice, con una considerevole parte di indagine sul campo – come funziona il nuovo secolo del capitale umano. E come potrebbe funzionare, finanche in un paese come il nostro.