Il governo del cambiamento

Mario Lavia ha scritto su Europa un pezzo acuto sul diario del governo D’Alema che ho pubblicato a puntate sul blog, estrapolando dal mare delle mie chiacchiere ed elucubrazioni le questioni chiave contro le quali impattammo: la nostra inesperienza (non disgiunta da un buon tasso di arroganza); i rapporti burrascosi con Prodi e con il mondo di Repubblica; l’atteggiamento supponente e irridente del capitalismo italiano nei nostri confronti. 

Mescolate il tutto e avrete il brillante risultato di quel governo: nato con il marchio d’infamia del ribaltone, vissuto tra diffidenze e sgambetti, morto perché perdemmo le regionali in Calabria e in Molise (vado all’ingrosso, ovviamente).

Guardando tutto con il senno del poi (e anche rileggendo quindici anni dopo quegli appunti), effettivamente non poteva che andare così.

E però – sarà perché quel diario lo scrissi io, più o meno ogni giorno – nella ricostruzione di Mario manca una componente che invece nel racconto c’è, e forte. Noi stavamo lì con l’intenzione di (scusate la parolaccia) cambiare le cose. Ammodernare il sistema, fare le riforme, promuovere la liberalizzazioni, snellire la burocrazia, rompere i corporativismi, riformare il mercato del lavoro.

Cose che noi non riuscimmo a fare, impattando – nella nostra ingenua arroganza – contro i muri di gomma della sinistra conservatrice e del capitalismo connivente all’italiana. E andammo a casa.

Ma dopo quelle cose nessuno le ha fatte, e oggi nessuno nemmeno si propone di farle. Semplicemente, l’Italia ha rinunciato all’idea di cambiare. L’offensiva conservatrice è stata talmente forte che ha convinto anche D’Alema di aver fatto un errore. Non quello – minore – di andare al governo, ma di immaginare che in Italia si potesse fare una rivoluzione liberale.