Ancora sulla “terra dei fuochi”

roghi 

  1. Dal diluvio di commenti seguiti al mio post su don Patriciello (insulti in larghissima prevalenza, imbarazzate difese degli amici), estraggo quello di Paolo Cecchini: “Sig. Velardi, lei rappresenta ciò che il popolo ormai disprezza, una casta di privilegiati improduttiva e saccente, invece di fare l’intellettuale scenda in piazza al fianco della gente come don Maurizio, vada anche lei ai funerali, forse comprenderà qualcosa della vita“. Penso che Cecchini fotografi abbastanza bene lo stato delle cose, e non credo che la questione riguardi il sottoscritto (non a caso attaccato dai più per i suoi lontani trascorsi di “politico”, amico di Bassolino e D’Alema, etc…). Il problema va ben al di là. A voler banalizzare, diciamo che torna attuale un tema che, in tutt’altri contesti, si discuteva 40 anni fa, quello dell’esistenza di “due società” che non si conoscono e non si parlano.

  2. La rete (che non è altro che un distillato del mondo reale) aiuta a capire di che si tratta. Da una parte ci sono persone che non sono (più) di sinistra e non sono (spesso) di destra. Tifano per il Napoli e piangono la morte del cantante degli Alunni del Sole. Sono contrari all’amnistia e amano papa Francesco. Maledicono Priebke anche da morto e rimpiangono il Regno delle due Sicilie. Vogliono che Berlusconi vada in galera e la Franzoni ci resti. Un mix di sentimenti, pulsioni e convinzioni che nessun contenitore politico può presidiare a lungo. (Per ora lo fa Grillo, ma è un veicolo temporaneo). Dall’altra parte c’è la “casta” (non c’è altra definizione possibile, piaccia o no), la cui parte più esposta (e debole, secondo me) è la politica. Ma dentro sono compresi magistrati e giornalisti, gerarchie ecclesiastiche e ogni burocrazia, intellettuali, tecnici. Tutti coloro che non comprendono, non vedono, perché non sanno. Perché vivono altrove, sono fisicamente distanti e – soprattutto – sono altrove mentalmente e culturalmente. Solo coloro che condividono sono vicini, possono comprendere. Questa è la foto che scatta Cecchini.

  3. Ma come e che cosa condividere? C’è da condividere – prima di tutto umanamente, mi viene da dire – il dramma di una terra che vive da sempre in condizioni pessime, e nella quale sta progressivamente prendendo forma una vera tragedia: la somma di un visibile suolo degradato e di un nascosto sottosuolo devastato, in cui da decenni vengono sversati rifiuti di ogni genere, molti dei quali (non sappiamo bene quanti) tossici. Una terra non presidiata da nessuno, sopra e sotto. Certamente non dallo Stato, ma neppure dai cittadini, che hanno subito l’occupazione della criminalità organizzata, e (va detto) l’hanno anche tollerata o avallata (come dappertutto nel Mezzogiorno). Nella “terra dei fuochi” camorre e illegalità diffuse si sono sommate e accavallate, nella colpevole assenza delle istituzioni. Per cui la prima risposta è (deve essere): condividere un vero e proprio patto che preveda una rinnovata ed efficace presenza dello Stato e la crescita di un nuovo civismo (qui non criminalizzo nessuno: sta parlando un napoletano, non un cittadino di Stoccolma). Un piano – come si capisce – a lungo termine, che deve avere come fondamento la cultura del dialogo permanente, dello scambio di esperienze, appunto della condivisione. Non quella dell’estremizzazione di un conflitto che dovrebbe riguardare le cose nella loro nuda serietà, e invece esaspera i timori di tutti, alimenta paure irrazionali, separa territori tra loro contigui, rischiando di diventare (non esagero) un tragico conflitto etnico. Rendendo incolmabili le distanze e irrisolvibili i problemi.

  4. Ecco la sostanza delle mie critiche all’esasperazione delle tensioni che dalla “terra dei fuochi” si espandono (come si è visto ieri negli incidenti di Napoli) ed anche alle esasperazioni del linguaggio (le frasi di don Patriciello che non mi sono per niente piaciute). Dalla tragedia si esce solo studiando insieme il da farsi: politica, media, scienza, territori. Condividendo dati, modalità e tempi di intervento, progetti concreti di bonifica e di rinascita dell’area. Non c’è altra via d’uscita. In fondo, si tratta di comprendere e inverare le parole che proprio l’altro ieri – e meglio non poteva – ha pronunciato Angelo Spinillo,  vescovo di Aversa: “Dobbiamo adottare un nuovo stile di vita fatto di attenzioni e persone che dialogano”. E’ l’indicazione di un cammino di speranza e di fiducia che tutti dovrebbero raccogliere.