Claudio Velardi ama definirsi lobbista e comunicatore. Ma per chi lo conosce da tempo è anche e soprattutto uno che non teme di andare contro corrente, di prendere posizioni scomode. E così, una volta che Renzi ha annunciato quali sono i sedici dicasteri del suo governo, mettendo la parola fine all’era della Coesione e chiamando nella sua squadra un solo ministro del Mezzogiorno continentale (nella lista c’è, ovviamente, pure il siciliano Alfano Alfano), la calabrese Maria Carmela Lanzetta, si è subito affrettato a commentare che «va bene così, anzi va benissimo così».
Stavolta non teme di essere andato un po’ oltre?
«Macché. E sono pronto ad argomentare subito».
Prego, cominci dai ministri.
«Lanzetta è sicuramente una persona valorosissima, una donna che ha avuto il coraggio di alzare la voce contro le cosche calabresi, rischiando di persona. E questo le fa molto, molto onore. Eppure, allo stesso tempo fornisce una rappresentazione retorica del Sud: è un emblema della sofferenza, non certo l’alfiere delle potenzialità di sviluppo di una terra in cui vivono 20 milioni di persone. Ma del resto, viste le condizioni economiche e sociali dell’odierna Italia meridionale, non potrebbe essere altrimenti».
Un Sud in disarmo e adesso anche senza Coesione.
«E meno male. A ben vedere, infatti, il dicastero in questione, a guardare agli ultimi tempi, si è distinto solo per una cosa: il riparto dei circa 31 miliardi di euro del quadro comunitario di sostegno 2014-2020. Operazione che ha fatto crescere, rispetto al programma operativo 2007-2013, di ben 2,5 miliardi i fondi europei destinati alle regioni più sviluppate e di soli 500 quelli in direzione delle aree meno dinamiche. Per questo, ma non solo per questo, dico che l’idea di Renzi mi convince: è giusto e logico abolire il ministero della Coesione e comunque qualsiasi struttura che serve o serviva a pietire e distribuire danari pubblici».
Ma c’è chi, invece, si preoccupa fortemente di come continuare a intercettare le risorse europee. Dicono che sono l’ultima speranza per far ripartire il Sud.
«Fesserie. E per rendersene conto basta un dato. Negli ultimi venti anni, a fronte di un enorme flusso di risorse arrivate nel Meridione, si è prodotto un unico, vero risultato: l’aumento del divario rispetto al Centronord. Mentre con la Cassa del Mezzogiorno, almeno nella sua prima fase, dagli anni ’50 al ’70, quando la politica non aveva ancora preso il sopravvento, il Sud aveva visto crescere il proprio Pil dal 40 al 70% della media Italia, con l’avvento di questi stramaledetti fondi Ue siamo riscesi intorno al 50%».
Qualcuno però obietta che, sempre negli ultimi venti anni, con le risorse europee si è dovuto supplire anche alla drastica riduzione dei trasferimenti nazionali verso il Mezzogiorno.
«Ma basta con questa lagna: quel mare di finanziamenti arrivato a Sud doveva semplicemente mettere o rimettere in moto lo sviluppo. E non è successo».
Perché, secondo lei?
«Semplicemente perché a un certo punto, più o meno agli inizi degli anni ’70, quindi a partire della seconda fase della Casmez, i soldi pubblici hanno incrociato i politici meridionali, che con quelle risorse si sono finanziati il consenso. La gente del Sud, dunque, è stata sedotta e corrotta dall’idea che lo sviluppo non si costruisce adeguandosi alle leggi del mercato, ma piuttosto drogandolo con massicce dosi di danaro controllate dal potere politico. E così il lavoro è diventato semplicemente un diritto sancito e non già, come avviene dappertutto, una merce da vendere».
E lei come pensa se ne possa uscire?
«Il Governo deve assumere il controllo della partita, deve gestire direttamente i soldi pubblici, ovvero le risorse comunitarie. E con esse finanziare solo alcuni grandi e importanti progetti».
Quali?
«Se fossi in Renzi finanzierei, per prima cosa, un progetto per portare ovunque, al Sud, la banda ultra-larga. Infrastruttura immateriale preziosissima e anche sicuramente ben meno costosa di tante opere annunciate e mai neppure partite. Portiamoci avanti con l’innovazione, come suggerisce tra gli altri Enrico Moretti ne La nuova geografia del lavoro: per alcune regioni e città depresse degli States, infatti, la globalizzazione e la diffusione di nuove tecnologie ha significato aumenti nella domanda di lavoro, più produttività, più occupazione e redditi più alti. Proviamoci».
Quando dice che il Governo dovrebbe gestire direttamente i programmi di sviluppo per il Sud, è quasi come se invocasse un commissariamento.
«Esatto. Invoco proprio le politiche dall’alto, dal momento che negli ultimi venti anni quelle dal basso, che hanno visto come gran ispiratore Fabrizio Barca, sono desolatamente fallite. Ma vi ricordate la programmazione negoziata, i patti territoriali, i contratti d’area, le intese di programma, il credito d’imposta. Un sacco di…».
E il turismo? Lei è stato assessore in Campania.
«Bisogna togliere la materia dalla disponibilità delle Regioni, che al Sud impiegano le risorse investendo nelle sagre di paese. Renzi dovrebbe mettere in atto una grande azione di marketing. Sempre dall’alto, però».
Ma lei è convinto che esiste un solo Mezzogiorno?
«Niente affatto. Ne esistono tanti: c’è la grande metropoli stile sudamericano che va da Napoli a Caserta; c’è l’area desertificata della Basilicata; la Calabria, che si trova nel degrado più assoluto; la Sicilia che drena denaro come una piovra. Poi, c’è anche la Puglia: quella più agganciata al Centronord».
Come, parla così della sua Napoli?
«La mia città con l’avvento della Tav, che è una grande infrastruttura e rappresenta una grande conquista, è diventata definitivamente la periferia di Roma. Un po’ come Tor Bella Monaca».
Paolo Grassi