L’inevitabile PDRDE

E’ un classico, il Post Di Ritorno Dall’Estero (PDRDE). Quando sbarchi a Fiumicino e ritrovi il tuo paese nella sua plastica, inimitabile unicità. E ogni volta lo maledici, e dici ‘che paese di merda’, e ‘perché all’estero le cose funzionano’ e ‘perché gli italiani all’estero si comportano bene e qui no’.

Stasera mi ero illuso. L’aereo atterrato con puntualità, lo Shuttle che fa sempre la sua figura (quando non è zozzo come via Toledo) e l’arrivo ai passaporti nell’area nuova, che ha la dignità giusta: uno spazio asettico, spazioso, silenzioso. Quasi solenne: il biglietto da visita di una nazione civile. Con fila riservata per i passaporti con microchip e le altre due, istituzionali: una per i cittadini UE e l’altra per il resto del mondo. Però, mi sono detto.

Solo che stasera mancava il resto del mondo. E c’erano, purtroppo, molti miei connazionali. I quali – ad un certo punto, con spudorata naturalezza, nella riprovazione silenziosa ma non troppo degli altri europei presenti, fatta di brontolii, sorrisini e ammiccamenti – si sono stancati di seguire la fila (misurata e scorrevole), hanno spostato le colonnine tendinastro e sono corsi verso la fila vuota riservata agli extracomunitari. Suppongo che i dementi l’abbiano fatto per ‘guadagnare tempo’: cosa avvenuta solo per i primi quattro o cinque corridori, come chiunque può intendere. Peraltro, ovviamente – passato il controllo – i dementi li ho tutti ritrovati ad aspettare i bagagli: l’esperienza più tipicamente avvilente del rientro a Fiumicino. Durata stasera la canonica mezz’oretta. Alla fine – dopo aver visto all’opera i miei connazionali rientranti – è stato quasi un sollievo incrociare il più tipico dei tassisti romani che mi ha portato a casa.

Da domani si ricomincia, con la conferma di una granitica certezza: il problema dell’Italia è rappresentato dagli italiani.