L’eterno riposo

Nel 2002 Enrico Letta aveva 36 anni, e a 32 era già stato ministro: prima alle Politiche Comunitarie, poi all’Industria, in un ministero di peso ereditato da Bersani. Il più giovane della storia della Repubblica (dopo qualche anno il primato glielo tolse la Meloni): diligente, preparato, efficiente. Lo incontrai nel suo studio all’AREL in una dolce mattinata di primavera, per parlargli di lavoro, da lobbista: in particolare delle iniziative del forum italo-spagnolo che animava (e anima tuttora, mi pare). Nei preliminari – ovviamente riservati alla chiacchiera politica di prammatica – non potetti fare a meno di chiedergli, ad un certo punto: “Scusa Enrico, ma tu che cosa aspetti? La vecchia classe dirigente del centrosinistra è finita e non è riciclabile. Tu sei giovane ma sufficientemente esperto, hai fatto il ministro due volte. Sei un volto nuovo e pulito, pupillo dei vecchi Dc, apprezzato dai comunisti. Lanciati nella mischia, candidati a costruire l’alternativa a Berlusconi…”. Lui mi gelò: “Ma figurati, chi me lo fa fare? Berlusconi tra un po’ finisce male… E, anche se la legislatura dura, nel 2006 tornerà Prodi, io avrò a stento 40 anni… non ho nessuna impazienza…”.

Andai via veramente deluso. In quei giorni la discussione sulla leadership del centrosinistra impazzava, i girotondi circondavano la vicina piazza Navona, qualche sera prima Moretti aveva lanciato la sua nota fatwa: “Con questi dirigenti la sinistra perderà per i prossimi venti anni”. E il giovane Letta mi annunciava che sarebbe tornato Prodi, e che lui poteva tranquillamente aspettare. Come in effetti ha fatto, trascorrendo grigiamente il decennio, sempre senza combattere, senza un guizzo di vitalità. Pienamente assimilabile all’esercito di dinosauri da cui avrebbe potuto distinguersi. Fermo. Immobile. Anche quando, infine, ha ricevuto gentilmente in dono l’investitura del governo, riuscendo dopo un po’ a sfiancare persino il povero Napolitano.

Ora, improvvisamente, l’ex-giovane Letta è diventato impaziente e iperattivo. Scrive libri, e dà l’assalto ai talk-show per presentarli. Verga lettere per i giornali, e quella alla Stampa di oggi è un esempio fulgido del suo stile: quattro colonne di piombo per non contestare neppure in un punto il merito delle cose dette ieri da Sorgi sulla riforma elettorale che tanto gli piaceva e ora non più, perché è Renzi a farla. Annuncia l’esilio parigino e le dimissioni da parlamentare. Ma per luglio. Sapendo che la Camera le respingerà, e lui dovrà inchinarsi e raccogliere il grido di dolore dei resistenti, di cui diventerà capo. Pronto a sgambettare alla prima occasione l’orrido Caudillo, per farci ripiombare nella sonnolenza eterna.