In questi giorni si torna prepotentemente a parlare di pensioni, dopo l’ultimo golpe consumato nei confronti della politica dal potere più castale che c’è, quello della Corte Costituzionale. Al golpe il governo ha messo riparo con prontezza e misura. Ma il tema pensioni è riesploso in generale, perché nulla in Italia appassiona di più. Non è solo per il caos che da sempre regna nella materia, e per quello che il caos genera, in termini di invidia sociale, guerre tra categorie, e rincorse a privilegi, eccezioni, deroghe, stralci, norme ad hoc e bonus. Il problema è più di fondo, ha radici lontane.
Molti decenni fa l’Italietta cattocomunista pensò bene di redistribuire rapidamente gli effimeri effetti del dopoboom, avendo il solo obiettivo di evitare tensioni sociali e politiche. Fu così che il salario e la pensione divennero due “variabili indipendenti”, l’uno dall’andamento dei mercati, l’altra dai conti dello Stato. Per ricondurre il salario alla sua realtà fattuale – la retribuzione del lavoro commisurata ai diversi fattori produttivi – ci volle la nobile battaglia condotta da Bettino Craxi contro la scala mobile. Per superare il devastante meccanismo retributivo su cui fu costruito il sistema pensionistico italiano ci sono voluti decenni di piccole, infinitesime correzioni e riformette. Con il risultato che ora che siamo – tendenzialmente – arrivati al contributivo per tutti, ci ritroviamo sommersi da un crescente debito pubblico, e – soprattutto – in un mondo del tutto nuovo. In cui il problema non è più se si va in pensione a 62 o 65 anni, ma come si fa fronte al cambio radicale della piramide demografica, come si riconfigurano le diverse stagioni (formazione, lavoro, riposo) di esseri umani la cui aspettativa di vita è clamorosamente cresciuta.
Ieri il buon Renzi ha detto, testualmente: “Se una donna a 61, 62 o 63 anni vuole andare in pensione due o tre anni prima, rinunciando a 20-30-40 euro, per godersi il nipote anziché dover pagare 600 euro la baby sitter, bisognerà trovare le modalità per cui, sempre con attenzione ai denari, si possa permettere a questa nonna di andarsi a godere il nipotino. Le normative del passato sono intervenute in modo troppo rigido”. Ora, questo può starci (sempre a condizione che la nonna si sia pagata, nel corso della vita, la pensione che prenderà). Ma il vero problema, giovanotto, è un altro.
Il vero problema di fondo è che è venuto il momento di compiere una rivoluzione sociale, politica e culturale (e anche lessicale). Noi concepiamo ancora la pensione come un obiettivo, un traguardo, “il coronamento di una vita di lavoro”, come si dice enfaticamente. Dovremmo invece considerarla come una condanna. Perché – una volta raggiunto il cosiddetto “traguardo” – camperemo tutti ancora mediamente 25-30 anni, e in buona salute: lo dicono le statistiche e le scienze. E che cazzo faremo per il resto della vita? Ci faremo mantenere dallo Stato (che non può più farlo)? Andremo ai giardinetti anche se il cervello ci funziona? E senza vergognarci di farlo?
Anche solo a fare un’indagine empirica tra i miei coetanei, quelli più imbolsiti e rincoglioniti li trovo proprio tra i “pensionati”: festeggiano l’ultimo giorno di lavoro, si regalano qualche viaggetto, vanno in palestra, si inventano hobbies, fanno i nonni. E dopo un po’ te li ritrovi che non sanno che cosa farsene della vita: intristiti, impigriti, impegnati solo a curarsi per sopravvivere, senza sapere bene perché.
Bisogna fare la rivoluzione dell’ageing, altro che pensioni. Inventare lavoro per gli ultrasessantenni, non regalare loro la prospettiva del babysitting. Creare mercati nuovi. Ricollocare gli anziani, facendoli lavorare con nuove mansioni. Chiedere loro di trasferire ai più giovani le competenze accumulate. Farli diventare formatori permanenti. (Sapendo anche che il cosiddetto patto generazionale è una sciocchezza. I paesi dove funziona il mercato dell’ageing sono quelli con maggiore tasso di occupazione giovanile).
Per questo bisogna combattere il concetto stesso di pensionamento, non agitarlo come un vessillo, magari per prendere qualche voto in più. Un paese che vuole solo pensionarsi è un paese senza speranze, per dirla in una parola. Se Renzi vuole ridare una speranza all’Italia, non può pensionarla.