La Tav e Napoli

Una mia lettera sul Corriere del Mezzogiorno di oggi.

Caro direttore,

sono un abbonato della Tav  sulla linea Napoli-Roma. Pendolare non quotidiano, e anche piuttosto privilegiato, direi: non avendo particolari obblighi o cartellini da timbrare, quasi sempre posso evitarmi levatacce e partire negli orari più comodi della giornata. Ora pare che dal 1° luglio noi abbonati dovremo obbligatoriamente prenotare il posto in treno: una nuova regola, qualche margine di libertà in meno negli spostamenti.  Ma sarà solo una piccola seccatura in più: nulla in confronto alle mille norme ottuse e capotiche che la burocrazia italiana ci impone ogni giorno; nulla rispetto alla comodità del viaggio in poco più un’ora, peraltro garantito dalla (generale) puntualità della Tav. Se poi i signori di Trenitalia ammoderneranno i loro siti antidiluviani, faranno delle app user friendly e – finalmente – renderanno funzionante il WiFi sulla linea, anche dal 1° luglio continuerò a ritenermi un viaggiatore mediamente soddisfatto.

Non ti scrivo quindi per accodarmi alla protesta dei tanti masanielli che minacciano sfracelli per la novità annunciata, ma per condividere una riflessione diversa che riguarda, in fondo, il ruolo e il destino della nostra città.

Sono migliaia e migliaia coloro che ogni giorno fanno per lavoro la spola tra Napoli e Roma: una migrazione quotidiana di operai, insegnanti, impiegati pubblici, ma soprattutto di avvocati, commercialisti, parlamentari, magistrati, imprenditori, professionisti, manager, docenti universitari. Sulla Tav si dà appuntamento l’intera classe dirigente napoletana. In treno si intessono relazioni, si parla di carriere e di affari. Tutti insieme appassionatamente, dirigendosi alla volta di Roma, la Capitale. Dove le attività di ognuno tendono sempre più a spostarsi. Dove si lavora.

Non che Roma sia la Detroit antecrisi e tantomeno la Silicon Valley. Ma a Roma sono concentrate le funzioni direzionali di una città, quelle che Napoli ormai non ha più. Perché, a valle della perdita del suo apparato produttivo e industriale – che fu grande – negli ultimi decenni la nostra città ha progressivamente perso “la testa”, senza darsi nuovi orizzonti strategici, senza immaginare per sé un’identità rinnovata e moderna. Così oggi è il capitale umano che va via. Lontano, se può. Più modestamente, a 200 km di distanza, così la sera ognuno può tornare ai suoi affetti.

Magari non è colpa di nessuno se questo è accaduto. Non è scritto da nessuna parte che un pezzo di territorio debba avere un brillante destino segnato per l’eternità. Intere civiltà sono nate, fiorite e scomparse; figuriamoci se la storia può preoccuparsi di un lembo di terra che fu nobilissima e oggi vive la sorte di una qualunque periferia.

Il punto è che – nel mentre sciamano a 300 km all’ora verso il centro – le classi dirigenti nostrane non sembrano avere alcuna consapevolezza di questa realtà. I nostri intellettuali ottocenteschi non sanno fare di meglio che continuare a gingillarsi con la storia della capitale del Mezzogiorno che fummo (e non saremo più, in un Mezzogiorno che non è più tale). Non c’è urbanista o sociologo che provi a immaginare Napoli come parte di una grande conurbazione, al cui centro c’è un attrattore che – guarda un po’ – è la Capitale d’Italia. Politici, giornali e uomini di spettacolo si preoccupano solo di rinverdire il mito con parole sempre più stanche, tutti immersi in un generale rimpianto. Nessuno che parli del futuro di Napoli su basi oggettive, senza oleografia e retorica, dandosi obiettivi realistici e misurabili, partendo dalle cose per come si presentano, nella loro crudezza.

Chi sa che qualcuno non cominci a pensarci, in questi giorni in cui le polemiche dei pendolari della Napoli-Roma somigliano tanto a quelle – eterne – dei pendolari della Roma-Ostia. Nel frattempo a me – per cortesia – date un WiFi che funzioni, su questa benedetta Tav.