A guardarla con occhi distaccati, la vicenda De Luca si presenta come l’approdo estremo del conflitto apertosi nel 1992 tra due attori cruciali della vita nazionale (la magistratura e i partiti), ampiamente risolto con il trionfo della prima e la messa in mora dei secondi.
E’ da allora, dall’epoca di Mani Pulite, che la politica vaga per l’Italia come un pugile suonato, mentre giudici di ogni ordine e grado la tengono sotto ricatto permanente e i media fanno il resto, incanagliendo vieppiù un’opinione pubblica di burro, giustizialista e guardona.
In uno dei periodici, disperati tentativi di rilegittimarsi, qualche anno fa la politica, in seguito a scandali e scandaletti vari, si è inventata una sgangheratissima legge contro la corruzione, diventata via facendo anche ad personam, quando ci si è accorti che poteva colpire definitivamente il mostro di Arcore (cosa peraltro non accaduta, e ben vi sta). Ora, a regime, la legge colpisce essenzialmente amministratori locali per reati veniali o inesistenti. Mentre la corruzione fa tranquillamente il suo corso (perché anche i bambini capiscono che il fenomeno si può combattere – nei limiti dell’imperfettibilità dell’essere umano – solo con meno leggi, più mercato e uno Stato minimo che funzioni: il contrario di quello che facciamo).
Con analoga, frenetica ansia da rilegittimazione la politica si è mossa sul suo fronte interno. I partiti, succubi della rivoluzione giustizialista, hanno progressivamente rinunciato a creare classi dirigenti, abbandonando le loro già labili procedure democratiche e rimettendosi al giudizio del cosiddetto popolo con le sciagurate primarie: estranee al sistema politico italiano (o a quello che ne resta), regolate unicamente dalle convenienze momentanee delle leadership di turno, diventate con il tempo una sorta di “Gratta e vinci” per una politica in cerca del colpo della vita. Solo che, quando funzionano, il vincitore scappa con il bottino; in caso contrario è sempre la politica a perdere altri punti nel Gran Premio della credibilità.
De Luca – con cieca caparbietà – ha fatto esplodere le insanabili contraddizioni di questa duplice storia, usando l’imbattibile grimaldello delle primarie per mettere il suo partito spalle al muro, ed il consenso elettorale per condizionare la magistratura. Di qui a poco misureremo la riuscita dell’operazione. Se la magistratura ripiegherà – e in tempi rapidi – la politica potrà finanche usare l’affaire De Luca per alzare la testa e avviare un recupero di sovranità. In caso contrario, subirà un altro colpo assai duro. E siccome in Italia – allo stato – la politica si chiama Matteo Renzi, sarà lui a dover rispondere di tutto. Di una legge colabrodo, di un partito non governato, ma soprattutto di uno squilibrio non più sopportabile tra i poteri dello Stato.
In ogni caso, tutti dovremo essere grati a Vecienzo (a partire dai miei più cari amici, garantisti a 24 carati, convinti che il Problema dell’Italia si chiami Giustizia, che però storcono il naso di fronte all’impetuoso e rozzo salernitano, e tremano di fronte alla più ignobile delle leggi). Nessuno ha mai sfidato il sistema come lui. Comunque vada a finire, il kamikaze De Luca ha mostrato a tutti, nella sua impudicizia, il Re nudo.