Berlinguer e la memoria

Tutti i bias su Berlinguer, questo sabato. Buona lettura. E vedete che scherzi fa la memoria. Nel pezzo sostengo che il feretro di Berlinguer attraversò l’Italia in treno. Non è vero. Fu portato a Roma sull’aereo di Stato, così volle Pertini, mi ha corretto Luigi Iodice. Alla mia stramaledetta memoria faceva più piacere ricordare un epico e romantico attraversamento dell’Italia in treno.  

In un episodio della serie Tv Black Mirror, tutti hanno un chip impiantato dietro l’orecchio. Dalla nascita. Grazie all’aggeggio possono rivivere in qualunque momento il loro passato, recente e lontano, ispezionando minuziosamente avvenimenti e ricordi. Incontri di lavoro, rapporti sentimentali e di amicizia, episodi di vita familiare vengono scarnificati e ricostruiti senza alcun filtro (e senza pietà). Per Liam, protagonista dell’episodio, le conseguenze di questo incessante (e crudele) bagno di realtà  sono drammatiche; la sua vita è sconvolta, al punto che decide, in conclusione, di estirparsi il chip con delle pinze.Schermata 2015-11-07 alle 06.55.32

La nostra memoria (per fortuna?) non funziona così. Non è un videoregistratore. Non conserva per sempre una copia fedele di quello che percepiamo con i sensi, ma elabora, trasforma e distorce gli eventi, attraverso percorsi mentali che cominciano in contemporanea con l’evento e non terminano più. Anche – tanto più – a distanza di decenni. Ogni rievocazione è in realtà una rielaborazione: sul piano fisiologico i ricordi – sappiatelo – sono connessioni sinaptiche che vengono ogni volta ricostruite da zero. Il primo giorno di scuola e il primo bacio, l’importante colloquio di lavoro e quella volta che stavamo morendo dal ridere, il nostro matrimonio come le interminabili e ridondanti riunioni di partito: l’intero film della nostra vita scorre nei ricordi secondo una sceneggiatura che abbiamo costruito nel tempo, e mandiamo in onda al momento. Tagliando le scene che non ci servono. Esaltando quelle che più ci piacciono o ci convengono.

Per esempio – e per entrare in tema – mentre scrivo, di Berlinguer ricordo naturaliter lo sguardo timido e gentile che mi rivolse una volta, prima che lo accompagnassi in piazza Plebiscito a tenere il suo comizio. Ricordo con tenerezza quando estraeva una sigaretta dalla tasca interna della giacca con gesto delicato. Ricordo mia moglie ed io, commossi, al suo funerale. Devo fare uno sforzo, invece, per tornare con la memoria alle incazzatissime discussioni in sezione sul compromesso storico (ma questo dove ci vuole portare?), all’impossibilità di tenere alta l’attenzione durante uno dei suoi pallosissimi discorsi, ai giudizi tranchant dei militanti dopo le (molte) sconfitte, e di (molti) dirigenti di partito nei suoi ultimi anni di vita.

Perché la memoria ci fa questi scherzi? Perché le informazioni che immagazziniamo non le organizziamo solo (o tanto) sulla base dei fatti, ma sulla base della componente emotiva positiva che contengono. La nostra mente, per sua natura, respinge i ricordi spiacevoli, li nasconde in pieghe che illuminiamo solo in condizioni di disagio. La paura, la rabbia, l’ansia che abbiamo provato da bambini prima della recita di Natale, svaniscono nel nulla; tendiamo a fissare soprattutto le sensazioni positive del dopo, gli applausi e i baci dei parenti. Quando poi un ricordo può essere condensato e raffigurato in un magic moment, in un’immagine emblematica, in un racconto forte, allora il ricordo si trasfigura, i contorni fattuali si smarriscono, la realtà diventa mito. Operiamo in quel caso una rosy retrospection, una retrospezione rosea: dal ricordo eliminiamo ogni amarezza e contraddittorietà, per rendere ulteriormente piacevole una rievocazione che sentiamo importante.

Da questo punto di vista, la fine di Berlinguer è – come dire – il racconto ideale. Lo storytelling del suo strazio ebbe – e continua ad avere – una potenza impressionante: il malore sul palco durante un comizio, eroicamente non interrotto; la sua agonia, durata giorni; il viaggio in treno del feretro, lungo tutta l’Italia; Pertini che bacia platealmente la bara durante i funerali straordinariamente partecipati; la testimonianza al lutto di un nemico giurato come Almirante; le prime pagine dell’Unità con la sua bella foto in barca, giacca a vento bianca e capelli scarmigliati. E infine il risultato delle europee, una settimana dopo la morte, che fa del Pci, per la prima e unica volta, il partito più votato d’Italia: la più classica manifestazione di euristica dell’affettività. Non a caso definita, in campo economico, come avversione alla privazione.

Quel che resta di Berlinguer scolpito nella memoria degli ultracinquantenni (che sono – tenetelo a mente – tra il 20 e il 25% degli italiani; gli under 40 non sanno letteralmente chi sia stato) è questo racconto, non la sua eredità politica. Che, razionalmente, non esiste. Perché il segretario del Pci rappresentava un partito strutturalmente in declino dopo i fasti del ’75-’76, privo di una qualsivoglia, realistica prospettiva politica, legato ad un mondo che andava morendo, e si sarebbe letteralmente dissolto nel giro di qualche anno.

Discuterne oggi è quindi una bella, e riuscita, operazione  editoriale. E il dibattito promosso da De Giovanni ha un indubbio interesse storico e culturale. A patto che si evitino i molti bias in agguato. A partire dall’effetto alone (halo effect) che ha largamente contribuito a mitizzare la figura di Berlinguer, fino all’uso più che discutibile della tecnica del cherry-picking (la scelta selettiva delle ciliegie), in ragione della quale ognuno si impossessa del pezzetto di Berlinguer che gli fa più comodo per giustificare il proprio racconto politico. Un framing retroattivo e fraudolento: uno si prende il Berlinguer del dialogo con i cattolici, un altro si intesta quello della questione morale. C’è chi sceglie l’innovatore, chi il continuista, chi l’ambientalista ante litteram, chi il protoriformista.

Ora, cari amici, abbandonarsi al caldo abbraccio della memoria è legittimo e finanche comprensibile. Ma bisogna difendersi dai suoi inganni, facendo appello al potenziale di ragionevolezza di cui ognuno di noi è dotato. Visto che – per fortuna, o almeno per ora – nessuno ci impianta dei chip dietro le orecchie.

Hanno collaborato Massimiliano Pennone e Nicolò Scarano.