Anche se tutti stiamo pensando ad altro, ecco il bias della settimana.
Ascoltate questa storiella. Si svolge grosso modo 400 anni fa in Olanda, ne è protagonista il tulipano. Sì, proprio il bellissimo fiore, simbolo nazionale della Turchia e importato in Europa nel XVI secolo. Intorno alla prima metà del secolo successivo, il mercato del tulipano ebbe un grande sviluppo. L’Olanda già ne produceva e ne esportava molti, ma ad un certo punto il fiore divenne un vero e proprio status symbol. I cittadini cominciarono ad acquistarne in grande quantità, e la conseguenza fu una lievitazione del suo prezzo sui mercati; il passo successivo fu che molti presero ad acquistarne i bulbi, per poi rivenderli dopo qualche settimana ad un prezzo gonfiatissimo. Il valore del prodotto crebbe al punto che cominciò un commercio continuato di “diritti” sui bulbi, prima che fossero dissotterrati. Venivano smerciati, in sostanza, dei floreali future, come sono chiamati oggi i prodotti finanziari basati sulla predizione del loro valore futuro. E tutti erano contenti e arricchiti dai tanti bulbi di tulipano e dai tanti “diritti” certificati dai notai. Finché un brutto giorno – per ragioni abbastanza ignote, forse per paura della peste – un’asta di tulipani nella piazza del mercato di Harleem andò deserta. E a quel punto la bolla scoppiò. Improvvisamente il prezzo dei tulipani crollò, e tutti coloro che ne avevano comprato a prezzi esagerati grandi quantità si ritrovarono improvvisamente poveri, con tanti bei fiori buoni solo per essere piantati nel giardino di casa.
Dal 1637 in poi di bolle speculative ne abbiamo viste e vissute tante altre, ultima la grande crisi del 2008 dei mutui subprime. Non abbiamo imparato ad evitarle, ma siamo diventati bravissimi ad addossarle ad altri, in particolare al perfido capitalismo finanziario, inumano e rapace. Dimenticando che a gonfiare le bolle siamo sempre noi, con le nostre speranze e illusioni, con le nostre ingenuità e credulità. In una parola, con le nostre irrazionalità.
Eccola, la parola-chiave: irrazionalità. Smentendo le teorie economiche classiche, gli studi sperimentali del nostro idolo Daniel Kahneman (psicologo e Nobel per l’economia) hanno dimostrato quanto nelle scelte quotidiane che facciamo pesino sentimenti, istinto, desideri veloci e istantanei. Insomma, le famose euristiche, opzioni di default, inesauribili e incontrollate, che orientano il grosso delle nostre azioni.
Non fanno affatto male, le euristiche, perché generano il gioco, l’avventura, il rischio: molle decisive del progresso, oltre che sale della vita. Il “salto nel vuoto” del rischio ha permesso agli esseri umani di cambiare il corso della storia. Siamo andati sulla Luna e abbiamo scoperto la penicillina, per esempio, prendendoci degli evidenti rischi: un nuovo farmaco non può prevedere procedure standard di sicurezza, che arrivano – come è ovvio – ex post, e forse i più anziani ricordano la povera cagnoletta Laika, lanciata nello spazio senza possibilità di ritorno.
Naturalmente, però, una percentuale molto elevata di rischio può produrre più danni che vantaggi. Per questo motivo le euristiche vanno tenute sotto controllo: il rischio va gestito. Il problema è capire come. Ci aiuta a farlo un altro signore: è Cass Sunstein, teorico del nudge, la scienza dell’architettura delle scelte. Per fare in modo che i cittadini gestiscano il rischio senza provocare danni a se stessi e alla collettività – sostiene Sunstein – si può in molti casi ‘spingerli gentilmente’ verso comportamenti virtuosi.
Prendiamo – per esempio – il gioco d’azzardo, rischio per definizione, oggetto da anni di campagne allarmistiche. Il Parlamento sta discutendo in queste settimane della sua disciplina. Qual è il modo migliore per regolarne gli eccessi? Siamo certi che la strategia più adeguata sia quella del proibizionismo? O – peggio ancora – quella di lasciare all’arbitrio locale la definizione di distanze di sicurezza e tabù urbani (chiese, scuole, ospedali) intorno ai quali è vietato giocare? Queste sono, senza ombra di dubbio, soluzioni ipocrite, deresponsabilizzanti e demonizzanti. Vietare i punti gioco a meno di 500 metri dalle scuole, significa incentivare, nelle periferie, sacche di semilegalità, con conseguenze sociali facilmente immaginabili. Tenerli lontani per legge dai luoghi della socialità ‘virtuosa’ è come condannare i giocatori alla loro patologia e ad un destino da paria. Peraltro i governanti dovrebbero sempre sapere che cercare di nascondere un problema sotto il tappeto significa rimuoverlo, non affrontarlo. E che, quando una cosa ci viene negata, finiamo per considerarla più attraente e appetibile.
Un approccio nudge consiglierebbe, al contrario, di costruire aree deputate al gioco facilmente riconoscibili e immerse nella vita delle comunità. In questo modo si aprirebbe finalmente la strada ad un dibattito aperto e trasparente sul gioco d’azzardo, e probabilmente lo si limiterebbe. Parlarne di più e con serenità aiuterebbe anche a scacciare i tanti bias che si legano alle rappresentazioni dei giocatori (quelli che comunemente chiamiamo stereotipi) e li inchiodano alle loro patologie.
La sostanza è che, in questo come in molti altri casi, le buone politiche del futuro devono avere il coraggio di accettare il rischio come un normale comportamento umano, e abbandonare la fallimentare tentazione di irreggimentarlo.
Hanno collaborato Massimiliano Pennone e Nicolò Scarano