Nelle primarie di Napoli si sono scontrati due apparati. Il primo capeggiato moralmente dalla Napoli “perbene”. Gente che sa stare a tavola e vive in belle case (vedere per credere il voto di Posillipo). Docenti universitari, intellettuali della più bell’acqua, signore socialmente mooolto impegnate, professionisti saldamente incistati nella PA. Tutti contro Bassolino nel ’93, (quasi) tutti alle dipendenze di Bassolino dal ’94 al 2007, tutti contro Bassolino dal 2008 all’altro ieri, tutti con Bassolino fino a ieri sera. Da oggi di nuovo in cerca di autore. Come è sempre avvenuto nella storia della borghesia improduttiva napoletana: incapace di qualsivoglia progettualità autonoma, al servizio di ogni potere, terrorizzata dall’inebriante alito della libertà.
Questa falange d’acciaio, con il sostegno inesausto dei media nazionali e locali, ha dato respiro all’operazione nostalgia che Bassolino nel frattempo alimentava nelle sue scarpinate in case popolari e piccolo-borghesi, arredate con croste di vedute napoletane e servizi buoni in bella vista. Erano sinceramente patetici i video dei suoi #casapercasa: immagini seppiate di una Napoli antica e spaesata, con ignare donne che, sedute in circolo, sciorinavano il rosario delle eterne lamentazioni, e dietro di loro gli sguardi stanchi dei vecchi, rispolverati staff di Palazzo San Giacomo. I risultati si sono visti. L’apparato dello sdegno morale e delle catacombe del fu-Rinascimento ha perso. Il mix di salotti e tinelli non ha funzionato.
L’altro apparato, quello che ha vinto di un’incollatura, è solo un po’ più ruvido del primo, diciamo meno presentabile, con pance spesso prominenti e (forse più) scarsa dimestichezza con i congiuntivi. Ma quello dei Borriello è l’apparato che macina oggi chilometri nelle strade, organizza l’assistenza e il clientelismo spicciolo, vive di politica, e non saprebbe come altrimenti. Ha vinto perché ha lanciato una sfida per la sua sopravvivenza, abbandonando il vecchio padrone e affidandosi ad una ragazza per ora senza leadership, ancorché solida e tenace. Dovremmo per questo considerarlo peggio (meno civile?, meno moderno?, meno rappresentativo?) dell’altro? E perché mai? O dovremmo credere alla fantasiosa teoria per cui uno che non è stato capace di sconfiggere Bobò (i napoletani sanno chi è) avrebbe battuto De Magistris? E per quale astruso motivo, di grazia? Ma per cortesia…
Il punto è che questa storia andrà a finire male, e così sarebbe andata a finire, comunque. Perché entrambi gli apparati oggi rappresentano solo se stessi, sono mille miglia lontani dalla città reale. Basta questo a dirlo: mentre a Roma – come a Milano, come altrove – nessuno poteva immaginare quanta gente avrebbe votato, a Napoli si sapeva tutto perfettamente, dal momento del lancio delle primarie. Un intelligente professionista della politica napoletana me lo spiegò più di un mese fa, dalle parti di piazza Carità: “Votano in 30mila. Se si arriva a 35mila, può vincere Bassolino”. Ha votato qualcuno in meno, e Bassolino ha perso. Il segno più chiaro di una mobilitazione che ha coinvolto solo – da una parte e dall’altra – persone straconosciute, organizzate nelle più classiche forme della politica meridionale: familismo, padrinaggi, cordate, clientelismi.
Intanto la città è altrove. Non che sia il Paradiso in terra, si tratta della città di sempre: caotica, invivibile, disamministrata. Ma viva, contemporanea anche nelle sue criticità. Il Pd napoletano non lo sa, perché – materialmente – non la intercetta, non la frequenta, non la conosce. Allo stato, da qui a giugno, solo Valeria Valente può provare a rimettere in contatto il Pd con Napoli. Solo se sarà capace di liberarsi dell’apparato che l’ha voluta, costruendo sul campo una sua propria leadership. Mission (quasi) impossible.