Quando si perde

Da simpatizzante di Renzi non sono contento del voto. Anche se, valutandolo con razionalità, non penso sia il giudizio universale: il giovanotto ha perso una partita importante, il campionato continua. Detto questo, tralascio analisi tristi e svolazzi sulle strategie da mettere in campo. Per quanto mi riguarda, le cose che pensavo prima dei ballottaggi (sono qui e qui), mi sento di confermarle, grosso modo. Per concetti più importanti, rivolgetevi altrove.

Ora, proprio in queste ore, avverto sinceramente altre urgenze. Perché la rivincita verrà con il tempo, ma – sotto la botta – si possono dire e fare altre cazzate memorabili e irrecuperabili. Ecco quindi un piccolo vademecum per evitarle (stilato, modestamente, da uno che di sconfitte se ne intende…), riservato a dirigenti e militanti Pd (e magari non solo).

  1. Quando si perde bisognerebbe tacere per un po’. Se proprio si è costretti a parlare, la sconfitta va dichiarata senza accampare scuse o prendendosela con gli altri. Così ha fatto ieri sera, per esempio, il buon Giachetti, con semplicità e modestia. Mentre il vecchio Fassino se l’è presa – nell’ordine – con la destra che ha votato 5 stelle, con Renzi, e – dulcis in fundo – con il “rancore sociale” degli elettori. Non avendo uno specchio a disposizione, evidentemente.
  2. Quando si perde, non ci si siede sulla riva del fiume ad aspettare il cadavere del nemico. “Ora voglio proprio vedere che cosa sarà capace di fare, la Raggi…”, sibilano sul web i pessimi dirigenti del Pd romano, che hanno straperso e vorrebbero trascinare la città intera nel loro tracollo. Invece di dare una mano ripartendo da zero, con umiltà e dignità (oppure, nel loro caso – forse meglio – ritirandosi direttamente a casa senza passare dal via).
  3. Al contrario, quando si perde bisogna sperare che chi ha vinto governi bene. Intanto perché è quello che chiedono i cittadini. E poi perché se la Raggi, De Magistris, la Appendino, etc… faranno bene, le nostre città ne beneficeranno, lo spazio dell’antipolitica si ridurrà, e anche le opposizioni saranno obbligate a rigenerarsi. Solo così il Pd cambierà, nei territori. Non sbraitando, bava alla bocca, contro sindaci che non funzionano, magari – non sia mai – rinvangando un passato felice.
  4. Anche perché il passato è passato, e quasi mai è felice. Quando si perde – cari amici napoletani, romani, torinesi del Pd – lo sguardo non va mai rivolto all’indietro. Nessuna età dell’oro – posto che sia stata tale – torna: potrà cominciarne un’altra, ma avrà caratteristiche e protagonisti diversi. Gli errori (ce ne sono stati? Per forza, altrimenti non si perdeva…) si superano guardando in faccia la realtà nuova, e attrezzandosi di conseguenza. Per esempio studiando dove sono andati i voti, cercando di comprendere il perché (ci vorrà un po’ di tempo, nel frattempo zitti), e soprattutto prendendo la metro ogni giorno. Ascoltando e andando a lezione dalle persone normali.
  5. Che sono poi quelle che alla fine decidono, fregandosene totalmente delle vostre sofisticate querelles (più a sinistra, più a destra, più al centro? Italicum o non Italicum? Segretario e premier insieme oppure no?) e non tollerano i dibattiti di gergo e ombelicali, a partire da quel “ecco, l’avevo detto, avevo ragione io”, parola d’ordine di straordinario successo dentro il Pd, tra i suoi capi come tra gli ultimi militanti. Confermarsi nelle proprie convinzioni dopo una sconfitta è quanto di più sbagliato e triste possa esserci. Non aiuta mai a trovare il bandolo della matassa, aumenta solo il rancore, fa smarrire ogni lucidità, non migliora l’umore. Che è poi la cosa più urgente, quando si perde (ritrovare l’umore, intendo: dietro l’angolo c’è sempre la vita, per fortuna).