Mancano due mesi all’appuntamento e stamattina il mio pusher della Pignasecca (l’unico ad avere il Parmigiano di Vacca Bruna a Napoli) la mette così: “Ma si perde, Renzi se nne va?”. Il tono è neutro, impenetrabile; da bravo commerciante non lascia trasparire preferenze. Neppure quando, dopo un mio altrettanto impenetrabile sondaggio, conclude, con meraviglioso neologismo (me lo conferma la Treccani): “Mah, ‘a gente è sfiduciosa“.
Dubito che, nei prossimi sessanta giorni, lui e i suoi colleghi, cittadini normali, avranno tempo e voglia di ragionare di oligarchie e derive autoritarie. Tantomeno si eserciteranno in una lettura comparata della Costituzione prima e dopo la cura. Qualcuno, forse, si interrogherà sugli effetti della riforma (domande basic, tipo: cambierà qualcosa?). A qualcun altro, forse, piacerà l’idea di avere meno politici in giro. Ma, in generale, i nostri concittadini daranno una risposta secca alla domanda del pusher: con il sì, Renzi resta a Palazzo Chigi, con il no va via.
Sarà così che la saggezza popolare sconfiggerà il colossale bias (distorsione cognitiva) referendario della cosiddetta “personalizzazione”. Una sorta di gigantesca saga dell’ipocrisia che va in scena da mesi: protagonisti tutti, ma proprio tutti gli attori della “scena pubblica mediatizzata”.
Dice: il bias l’ha creato Renzi, distorcendo il significato originario del referendum, mettendo in causa se stesso, non il quesito. Ora, pongo qui una domanda che purtroppo non ha risposta fattuale, ma che qualunque persona di buon senso è in grado di porsi. Chiedetevi che cosa sarebbe accaduto se il giorno dopo l’approvazione della riforma costituzionale (16 aprile 2016) – cioè 3 anni dopo il discorso di rielezione di Napolitano e “le domande pressanti di riforma delle istituzioni” (22 aprile 2013), a 2 anni e passa dal cosiddetto “patto del Nazareno” (18 gennaio 2014) e dalla nascita del governo Renzi (22 febbraio 2014) centrato sulle riforme costituzionali, dopo 6 contrastate approvazioni parlamentari del disegno di legge (8 aprile 2014) del governo (non di qualche passante), dopo centinaia di votazioni, migliaia di emendamenti, reiterati voti di fiducia sull’Italicum, insomma dopo che per 3 anni non si è discusso d’altro – bene, chiedetevi che cosa sarebbe accaduto se, dopo tutto questo, il Presidente del Consiglio avesse serenamente detto: “Perfetto, ora andiamo al referendum. Gli italiani votino con tranquillità, perché il voto non riguarda il futuro del governo. E tantomeno il sottoscritto, che rimarrà al suo posto, qualunque cosa accada”. Anche mio nipote (nato all’epoca del Napolitano bis) si sarebbe ribellato. Politici e giornali avrebbero irriso ad una “riforma senza padri”. I nemici avrebbero fatto dell’opportunistico distacco renziano il principale motivo di campagna elettorale (“Ma come, D’Alema si dimise per mooolto meno…”). Con Zagrebelsky c’avrebbe discusso Ceccanti (magari con esito analogo: di critica, se non di pubblico). I non molti amici di Renzi se la sarebbero data tranquillamente a gambe. E il referendum avrebbe avuto la sorte segnata: una tediosa discussione tecnicistica tra addetti ai lavori, una scarsa mobilitazione del sì, una naturale prevalenza (di questi tempi!) del voto “contro”.
Per queste ragioni banali, Renzi l’ha cercata e voluta, la prima personalizzazione, definiamola 1.0 (29 dicembre 2015: “Se perdo il referendum considero fallita la mia esperienza politica”). E ha fatto bene. Perché, in assenza di questa spinta iniziale, la partita l’avrebbe giocata dall’inizio con un irrecuperabile handicap.
Poi avversari e amici hanno fiutato il rischio del cosiddetto plebiscito, hanno scatenato – in buona e in cattiva fede – l’argumentum ad hominem, e gli hanno chiesto a gran voce di aggiungere una “s” alla campagna: un modo per depotenziare la vittoria eventuale del sì, non certo per rendere digeribile la sconfitta. E lui la “s” ce l’ha messa, facendo pure plateale autocritica (esercizio che non è – come dire – nelle sue corde): ma è chiaro a chiunque che si tratta di una finzione, di un argomento retorico che serve solo a confermare ciò che si smentisce.
Perché, per quanto si possa andare al merito dei quesiti, tenere fuori dalla contesa il destino del governo, fare finta che il 4 dicembre sia una data come un’altra, il mio pusher di Parmigiano, l’icastico Vincino della vignetta e gli italiani normali sanno che con il voto decideranno se adottare o no un buon pacchetto di riforme, ma soprattutto se dare a chi le ha promosse la facoltà di gestirle. No riforme no Renzi. Tertium non datur.