Ogni volta che può esultare per una sconfitta, la vecchia sinistra – giusto per toccare l’apice del godimento masochistico – sostiene che bisognava andare più a sinistra per vincere. Lo ha detto ieri Bersani parlando delle elezioni Usa (“Sanders non avrebbe perso, ci scommetto”), capeggiando una vasta coalizione (Civati, D’Attorre, Ferrero) cui Fassina ha fornito il surreale supporto ideologico: “La vittoria di Trump è la sconfitta del neoliberismo”.
Non varrebbe la pena discutere di queste sciocchezze, se non fosse che questo genere di sinistra – minoritaria, confusa, élitaria, molto mediatica – fa più danni di quanti voti riesce a raccogliere (assai pochi). Perché fa leva sulla nostra naturale pigrizia mentale, e alimenta un bias che impedisce la comprensione di fenomeni nuovi, dell’inedito, dello sconosciuto. E’ una classica “euristica della rappresentatività”, diffusa nella sinistra dei luoghi comuni e delle nostalgie: una distorsione che affronta problemi simili e/o ricorrenti (nel caso in questione la sconfitta, la perdita di voti, etc…) con una risposta tranquillizzante e stereotipata (“siamo stati poco di sinistra”), ignorando le informazioni che ci dicono altro (le esperienze passate di candidati de sinistra, la sconfitta di Sanders alle primarie, la vittoria di un tycoon che più liberista non si può, l’effettiva distribuzione dei voti, il massacro dei topoi del politically correct, etc…).
Questo blocco mentale e psicologico impedisce a molti di pensare liberamente e di contribuire alla riscrittura del profilo di una sinistra moderna. La malafede di Bersani e degli altri sta nel fatto che lavorano su questi luoghi comuni non perché vi credano, ma solo per mantenere piccole rendite personali e di potere.