Quattro anni fa non avrei mai immaginato che il mio fratellone Umberto (scuola Pci, ruvido e solido riformista) potesse entusiasmarsi come un ragazzino ascoltando ieri Matteo Renzi alla Mostra d’Oltremare. Quando il fiorentino venne al mondo, con le primarie 2012, ci scazzammo come i ragazzini figicciotti che fummo, in maniera sanguigna: per stare con lui, a me – anarchico e irregolare dentro – bastava la fiamma della novità che incarnava; il fratellone chiedeva ragguagli, voleva precisione, la sua cultura di origine prevedeva passaggi rotondi, non salti.
Poi Umberto ha cominciato una lenta, progressiva e puntigliosa marcia di avvicinamento. Hanno pesato i clamorosi errori dei suoi vecchi – anche molto cari – amici, che si sono messi dalla parte sbagliata in ogni possibile circostanza. Ma moltissimo ha pesato il concreto riformismo di Renzi, incardinato coerentemente in una cultura politica che la storia non ha condannato (a differenza di quanto era capitato a noi, poveri comunisti italiani). E la sua capacità di “fare politica” (come diciamo noi di vecchia scuola), ben celata dietro l’esplosivo vitalismo comunicativo.
Ora siamo ad un passaggio emblematico. La riforma che votiamo dopodomani è parziale (ci mancherebbe), esposta a verifiche (certamente), imperfetta (forse, lo vedremo). E’ materia che si mette in moto, solleva polvere dai mobili, mette olio in meccanismi arrugginiti. E richiederà ulteriori, continui aggiustamenti, come ogni atto quotidiano della nostra vita. Che è bella proprio in quanto “riformista”: perché ci cambia ogni giorno, genera curiosità, passioni e sfide, ci mette di fronte all’inedito.
“Il movimento è tutto, il fine è nulla”, diceva un maestro dell’Ottocento che Umberto e i riformisti conoscono bene. Le mummie del perfezionismo immobilista, con il loro sopracciglio alzato, non prevedono movimento. Quanto al “fine”, ne incarnano di più la declinazione al femminile.