Vi posto – a puntate, è un pippone – un po’ di pensieri sparsi buttati giù nei giorni successivi al 4 dicembre 2016, e mai pubblicati: per pigrizia, ma forse anche per disillusione. Li ho riletti a volo; sei mesi dopo mi sembrano abbastanza attuali, mentre si discute di legge elettorale e ci si scandalizza per il ritorno del proporzionale, dimenticando il trauma del No al referendum costituzionale. Un voto rimosso da chi ha vinto, e – comprensibilmente – non se ne vanta. Ma anche da chi ha perso, e non ha approfondito le cause di un sconfitta rovinosa – a mio avviso – non per Renzi ma per il paese.
Domenica 4 dicembre. Mi avvio a votare in una limpida giornata di sole, verso le 11.30. Salgo le belle scale del liceo Genovesi (il mio liceo!), entro nel corridoio che porta ai seggi, e mi sorprendono le file. Persone prevalentemente di una certa età, volti sereni, un clima diffuso di misurato benessere e buonumore domenicale. Una comunità civile che celebra con compostezza il suo rito laico.
Il seggio numero 57 occupa la stessa aula nella quale sedevo parecchie decine di anni fa. E la cabina elettorale è sistemata proprio in fondo a destra, dove c’era il banco all’ombra del quale riparavo per sfuggire alle domande ficcanti e allo sguardo dolce e severo del professor Davalos. Questa volta, a differenza dei giorni che furono, sono preparato. Entro ed esco dalla cabina con velocità da professionista. Senza controllare la cancellabilità della matita (quante ci è toccato sentirne, amici miei…).
Fuori dal seggio getto un nuovo sguardo alle file. Gli anziani me li figuro abbastanza bene orientati, salvo il compagno Ferraiuolo, che mi saluta con affetto mostrandomi la spilletta del No nascosta sotto il bavero (il sacro rispetto del vecchio comunista verso le regole del rito democratico quasi mi commuove…). I quarantenni, alcuni con prole, non mi sembrano arrabbiati. Giovani pochissimi. Ne ricavo stupidi auspici, che diffondo in rete: “… in preda ad un irragionevole ottimismo… “, twitto all’uscita.
Pochi minuti dopo, i primi dati sull’affluenza fanno crescere l’illusione. Votano in molti, e ci hanno convinti che oltre il 60% la vittoria è quasi certa (io non l’ho mai pensato, signor giudice: diversi testimoni possono confermare). Votano anche al Sud, ma meno, e questo dovrebbe aiutare: cosa che invece non solo penso, ma cerco di trasformare in spin nelle ridicole, ansiose e ansiogene telefonate che ci scambiamo tra addetti ai lavori, giornalisti, politici, sondaggisti, nelle ore che seguono. Come se l’elettore di S. Pietro a Patierno, che nel frattempo sta deponendo nell’urna il più rotondo dei giudizi (record napoletano: 79,34% al No), possa esserne influenzato.
Lo spin, il maledetto spin. Cioè l’effetto rotatorio, il cambio di direzione che ogni “doctor“, ogni aspirante persuasore sogna di imprimere ad un’opinione pubblica che si comporta però come uno sfuggente e misterioso insieme di particelle subatomiche. Come una massa che non è una massa, immersa in un movimento che esclude la permanenza in uno stesso stato energetico, che vieta ad ogni suo componente di mantenere analoghe caratteristiche fisiche anche per un nanosecondo. Quindi insondabile, indescrivibile, inafferrabile.
Pensate al paradosso. Siamo una comunità che più materiale non si può – fatta di pance cervelli e cuori, corpi visibili e pubblici – ma stiamo realizzando il principio di indeterminazione di Heisenberg che descrive il funzionamento dell’invisibile, dell’infinitamente piccolo. “Più cerchiamo di capire con precisione quale sia la posizione di una particella, meno precisa è la nostra conoscenza della sua velocità. E viceversa”. Così la società: di norma non sappiamo cosa pensi la gente, e quando ci illudiamo di averlo capito, la troviamo già da un’altra parte. La meccanica quantistica applicata ad una società impermanente e ubiqua. Se le cose stanno così, non basta mica Jim Messina per afferrarla. Ci vuole un nuovo Einstein.
Quale sia il momentaneo spin quantico del 4 dicembre lo capiamo infatti piuttosto tardi, tutti. Nel corso della giornata continuano a circolare nel retrobottega dell’informazione le accomodanti forchette dei sondaggi. I 5-7 punti di distanza in fondo diventano 2 o 3, se li sposti da una parte all’altra. E dunque: metti un buon differenziale di votanti tra nord e Sud, una spruzzata di italiani all’estero e la partita è aperta. A pranzo, mia moglie mi inchioda: “Calmo, ricordati che sei affetto dal bias dell’ottimismo”. Difficile darle torto, se è vero che, nelle ore in apnea che seguono, commento le fortunose vittorie della Maggica nel derby e dei verdi in Austria con due insulsi tweet (“Buona la prima”. “Buona anche la seconda”), chiari annunci del terzo, prossimo lieto evento.
Solo alle 19, con il secondo dato sull’affluenza, il barlume della razionalità si incunea nel bias. Se si arriva al 70% di votanti, perché il Sì vinca ci vogliono più di 16 milioni di voti. Dove si andranno mai a prendere? Di qui due ulteriori tweet di avviso ai naviganti (controlli pure, signor giudice). Ore 19.12: “Una presumibile affluenza conclusiva intorno o oltre il 70% fa saltare tutti i sondaggi. In un senso o nell’altro”. Ore 19.29: “Signori, è in corso il ballottaggio delle prossime politiche, questa è la verità. Che Dio ce la mandi buona”. E quest’ultima invocazione, scandita da un laico impenitente, la dice lunga sui sentimenti che si fanno strada, confermati dai primi, catastrofici instant poll. A questo punto non resta che affidarsi al miracoloso, salvifico arrivo del 7° Cavalleggeri, alias la mitologica maggioranza silenziosa, avvolta nella silenziosa spirale che i bravi comunicatori studiano sui sacri testi. La gente che non si fa sentire nei sondaggi, ma fa la differenza nelle urne.
Alle ore 23.01 la maggioranza silenziosa non si fa viva. Negli exit poll i punti di scarto sono quelli indicati dai sondaggi, sia pure nella forbice più larga. Passano tre quarti d’ora e, con le prime proiezioni, scopriamo che invece c’è, ma sta dall’altra parte. Ed è tutt’altro che silenziosa, visto che il No lo sentivamo urlare dovunque ci girassimo. Poco dopo mezzanotte quel 60% diventa maggioranza rumorosissima, devastante. Fine dell’avventura. Inizio della pena.
(1. Continua)