Sei mesi dopo (3)

Terza puntata. Il populismo non si insegue ma si contrasta, alzando quotidiane barriere culturali contro i giganteschi bias di cui è portatore. Significa andare costantemente controcorrente: cosa che si doveva – e si dovrà – fare con molto più coraggio. L’unica possibilità: non per vincere ma per cambiare davvero. 

Dalla ricostruzione – mi pare non faziosa – degli avvenimenti ricavo la conclusione che l’imputato non ha più di tanto sbagliato la conduzione della campagna referendaria. Magari fossero di questa natura gli errori: chi glieli attribuisce (anche un maestro di politica come Giorgio Napolitano) a mio avviso sbaglia per difetto. Perché purtroppo è fallita la strategia generale che il nostro ha perseguito, peraltro con coerenza e testardaggine. Pensava di poter convogliare sul Sì al referendum i voti di protesta e quelli di proposta, il consenso degli antisistema e di quelli che il sistema vogliono cambiarlo. I voti dei riformisti e una buona parte di voti dei populisti. Questo non ha funzionato. Semplice. Più complicato stabilire perché. Ma vi sono buone ragioni per spiegare. Ve ne dirò tre, e forse non sono quelle di cui avete sentito parlare finora.

La prima riguarda la forza del populismo e i modi per contrastarlo. Il populismo è un’onda lunga, lunghissima che, al momento, rischia di travolgere chiunque cerca di governare, facendo finta di niente, un mondo in tumultuosa trasformazione. Attenzione al “facendo finta di niente”: è il punto decisivo. Perché i populismi di ogni risma si possono sconfiggere, quantomeno contrastare, ma solo combattendoli radicalmente, sul piano culturale prima che politico. Blandirli, cavalcare i loro temi, imitarli non serve a niente. A chiunque – sistema informativo in testa – sposi o avalli le loro barcollanti, spesso demenziali tesi, bisogna sbattere in faccia la realtà di un mondo che cambia, che richiede soluzioni nuove e ragionevoli a problemi del tutto inediti. Quello che non solo non ha fatto la campagna del Sì, ma che in generale tacciono – per paura, opportunismo, incertezze culturali – le forze che ai populisti si oppongono.

Per esempio andava e va urlato che le élites sono necessarie, e in Italia scarseggiano. La sacrosanta lotta ai privilegi delle caste non andava e non va ridotta a questione di stipendi e vitalizi. E non potrà mai tradursi nel ridicolo assioma dell'”uno vale uno”: principio che – come abbiamo visto – viene tradito prima di tutto dai suoi paladini (i grillini), figuriamoci se può funzionare per governare una nazione sviluppata o sistemi complessi.

Così come andava e va detto a gran voce che la politica non può essere tenuta sotto scacco dalla magistratura, e che la più grande urgenza italiana è ristabilire quell’equilibrio tra i poteri che manca da più di 20 anni.  Il giustizialismo, virus letale che arma ogni populismo, non può diventare “il surrogato della battaglia per la giustizia sociale”, come ha detto a un certo punto Andrea Orlando. “Onestà onestà” è una invocazione pubblica da forcaioli tendenzialmente imbroglioni. L’onestà praticata è silenziosa.

Ancora. I deboli, i poveri, gli svantaggiati – oggetto privilegiato di attenzione di ogni populista che si rispetti, a partire da chi ora siede su un altissimo soglio – non si aiutano con redditi universali di cittadinanza, politiche di assistenza e mance varie, ma – al contrario – spostando risorse dalle istituzioni al mercato, imperfetto ma unico strumento che abbiamo a disposizione per creare ricchezza e lavoro, e combattere così l’eccesso di disuguaglianze.  

Infine. Le società di mercato sono società aperte. Vivono di mobilità di merci e di persone, di lavori flessibili, di frontiere da abbattere. Sono un melting pot di culture, diritti, costumi e abitudini, da costruire giorno per giorno esaltando il fascino dell’impresa comune. Un mondo difficile, competitivo e bellissimo, cui le istituzioni devono cercare di conformarsi, diventando più snelle e veloci. Lasciando i populisti alle loro descrizioni tristi, fatte di fantasmi, allarmi e paure. Un film dell’orrore che non è il mondo vero.

Ecco, se avesse combattuto la battaglia per l’ammodernamento istituzionale del paese esplicitando queste ispirazioni, probabilmente il nostro Conducator avrebbe fatto comprendere meglio a tutti le ragioni del Sì. (Dico probabilmente, naturalmente non c’è controprova). Magari qualche italiano irretito dalla sirena populista avrebbe potuto comprenderne le degne motivazioni. Forse il 4 dicembre avremmo perso comunque, ma gettando qualche buon seme in più nella lotta contro il cancro populista.

(3. Continua)