Sei mesi dopo (5)

Quinta e ultima puntata. Dopo il referendum costituzionale, il futuro di Renzi non dipenderà dal suo carattere o dalla comunicazione che metterà in campo, ma dalla qualità delle scelte politiche e culturali che sarà in grado di fare.

La terza ragione della sconfitta riguarda il profilo personale, politico e comunicativo del nostro, del signor Matteo Renzi da Rignano. Politico giovane ma scafato, venuto alla ribalta e capace di sbaragliare in pochi anni le flebili difese del giurassico italiano per impossessarsi in un amen di partito, governo e Stato.

La cosa non è piaciuta a nessuno, parliamoci chiaro. E non mi riferisco ai suoi colleghi politici, o alle caste di imbalsamati che in Italia concepiscono come offensiva la sola idea di un loro avvicendamento da postazioni di potere di qualunque genere (ministeri, uffici, consigli di amministrazione, partiti, banche, sindacati, giornali). Figuriamoci poi se ad opera di un ragazzino di provincia piuttosto borioso.

No, parlo proprio degli italiani comuni. Di noi che passiamo la vita a lamentarci delle cose che non funzionano, dell’incapacità di decidere, dell’urgenza di trovare nuove leadership in ogni campo e poi, quando ne troviamo una, cominciamo ad abbatterla con la scure del pregiudizio, della critica corriva, del sarcasmo e dello scetticismo. Sempre con lo sguardo obliquo dell’invidia. Preferendo crogiolarci nelle nostre incapacità collettive e specchiandoci nelle disgrazie degli altri, invece di approfittare di ogni occasione per crescere, come popolo e come individui.

Direte: e allora l’entusiasmo della primavera 2014, del 40% dei voti alle europee consegnato al giovane allora trentanovenne? Un solido investimento sul futuro? O una eccessiva esplosione di entusiasmo che ha generato in Renzi una immotivata hubris (facendogli poi commettere l’errore fatale della rottura del patto del Nazareno) e ha gettato le premesse della disillusione successiva? Lo capiremo vivendo. Nel frattempo fidiamoci della fisica, e del suo – se non ricordo male – terzo principio della dinamica: ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Eccitazione alle stelle prima, massimo disincanto poi. Dall’altare alla polvere eccetera. Questo per ora è accaduto.

E a me interessa assai poco – vi confesso – addentrarmi nei meandri psicologici del renzismo percepito. Lo trovo un esercizio buono per opinionisti frustrati, giornalisti in eterna attesa (“Sai, ieri mi ha chiamato”), politici e manager in cerca di garanzie. E’ chiaro che Matteo Renzi, se desidera preservare un suo futuro pubblico, dovrà fare i conti con il carattere storicamente determinato del paese, più di quanto non abbia fatto finora. Magari per contribuire a migliorarlo correggendone i difetti senza aderirvi piattamente, se ne sarà capace. Di certo smussando gli spigoli del caratterino che ha, mostrandosi meno ma meglio, facendo tutti i necessari e salutari bagni di umiltà: in una parola maturando. E comunque, alla fine, fatti suoi.

A me interessa di più parlare del Renzi politico, sul quale ho un’idea diversa da quella che prevalentemente circola tra commentatori, opinionisti, guru della comunicazione e webeti di varia osservanza.

L’idea che mi sono fatto è che il nostro ha perso il referendum perché portatore di una cultura antica, di una visione ancora tradizionale – magari nobile, se proprio ci tenete – della politica. Ha pensato di poter vincere facendo cose, spiegando le cose fatte e quelle da fare per il futuro dell’Italia. Immaginando che bastasse mostrare al mondo l’impegno e la determinazione, la distanza dai vecchi poteri, la differenza sua e della sua squadra da quelli di prima, per scalare la montagna del 51% referendario. Un disegno candido, ingenuo, sorretto da una grande fiducia nella politica come agente del cambiamento, come fattore di trasformazione. Convinzione tipicamente otto-novecentesca, che Matteo Renzi ha introiettato nel suo percorso di giovane democristiano cresciuto in una terra rossa, la Toscana, dove da sempre si mangia pane e politica. E neppure di cattiva qualità.

Ma né la buona scuola (ehm…) della provincia italiana né la distanza esibita dai terrazzi romani, le frequentazioni internazionali o le adeguate letture (che pure coltiva, mi consta), potevano bastare a intercettare la mutazione genetica che la politica ha subito con la terza e definitiva globalizzazione (con il dominio che oggi su di essa esercita la tecnica, direbbe il maestro Severino). E a trovare risposte adeguate alla sua trasformazione.

Mi rendo conto che parliamo di questioni che tolgono il respiro. Ma ditemi se vi sembra ancora possibile chiudere dentro i confini posticci dello Stato-nazione i movimenti globali di merci e denari. (E ditemi anche come immaginate, alla lunga, di farlo con le persone). Ditemi come si fa ad impedire agli esseri umani di andare in cerca di posti dove produrre e vendere a condizioni più vantaggiose, lasciando al loro destino mercati stagnanti e infruttuosi. Ditemi come è possibile garantire i livelli di welfare raggiunti in Occidente mantenendo insopportabili livelli di fiscalità. Ditemi se pensate che l’atomizzazione della rappresentanza è un’alternativa efficace alla crisi della governabilità. Ditemi se pensate che sia credibile svuotare l’oceano globale delle fake news con il bicchiere di una qualche regolamentazione nazionale. E così via.

Ditemi, in sostanza, quali risposte accettabili – limitate e parziali, cioè democratiche – la buona politica contemporanea può dare a uno qualunque di questi nuovi, giganteschi problemi, senza cadere preda di quei populismi che i problemi li agitano, poi li eludono e infine li rimuovono. Ho sotto gli occhi le città in cui vivo – Napoli e Roma – entrambe gestite da populisti buoni solo a scorazzare nei territori della demagogia e del non fare. Regole a Napoli? Nessuna, ognuno faccia quello che gli pare e vivremo tutti felici. Opere a Roma (Olimpiadi, stadio, metro)? Neppure a parlarne, sia mai dovessimo sporcarci le mani prendendo delle decisioni.

Se il piano locale anticipa e annuncia quello nazionale – e ce ne sono tutti i segni – sarà dura per la politica democratica resistere e rilanciare, prossimamente. Ci vorranno nuove risposte. Non basterà – come non è bastato in occasione del referendum – iniettare nella politica democratica massicce dosi di comunicazione. Per affrontare l’enorme cambiamento che stiamo vivendo, è fatica persa imbellettare la fatica quotidiana del governare con verbosi spiegoni e qualche pedante slide.

Per questo non mi interessa affatto affrontare l’aspetto comunicativo della sconfitta referendaria. Mi sembra il più banale, il meno interessante.

In questi anni, l’Italia dei media e della politica, dei social e dei salotti, delle Università e dei talk, ha letteralmente – scusatemi – fracassato i coglioni a chiunque, recitando il mantra ottuso della comunicazione in politica. I contenuti sono fungibili. Lo spot, quello sì che conta. Che dite, quel tale in Tv funziona o no. I social network: se non ci stai non esisti. Quanto sei social. Come stai sui social. L’accountability certo, ma nella blogosfera (giuro che c’è chi usa questo termine). La community e gli hashtag, i banner e i brand, gli analytics e il networking. E i big data. Chi li possiede. A che servono (nel caso qualcuno lo chiedesse, non si sa mai). E lo storytelling. Come faremo, senza storytelling?

E poi il diluvio di parole sull’ascesa e la caduta di Renzi. Articolesse, libri, interi talk dedicati. Però, quanto è bravo in Tv. Spigliato, affabulatore. Campione di comunicazione. D’accordo, un po’ ridondante. Certo, è l’erede di Berlusconi. Forse eccessivo, sovraesposto. Non deve esagerare. Anzi, diciamo la verità: ormai è vittima dell’overload informativo da lui stesso determinato (sovraccarico cognitivo, fa più figo). E dunque ora basta, ha seccato. Non se ne può più.

Ma non sentite il vuoto di tutto questo? Davvero c’è qualcuno che pensa che tecniche e strumenti comunicativi siano decisivi? Che Trump ha vinto perché ha presentato The Apprentice? Che Hollande è finito, raggiungendo la ragguardevole quota del 14% di consenso, solo perché ha il perenne aspetto di un pulcino spaventato? Che la vittoria nelle prossime elezioni italiane sarà appannaggio di chi si mostrerà più bravo in Tv o sul web?

Attenzione. Non sarò certo io a dire che la comunicazione conta zero. Nel mondo contemporaneo ognuno – qualunque mestiere faccia – deve esibirne un minimo sindacale, conoscerne le regole basilari e qualche segreto: sono quei piccoli accorgimenti che distinguono un umano del XXI secolo da un paracarro (che pure comunica, ma ora non la facciamo troppo difficile…). Però il problema di un politico, a qualunque latitudine agisca, è delle cose che dice, non di come le dice. Vale per Renzi come per chiunque.

Insomma è la politica che deve cambiare per essere all’altezza delle sfide nuove. Deve diventare globale e locale, deve avere visione e immediatezza, parlare al cuore di ogni singolo essere umano. Soprattutto deve superare con una nuova sintesi quella contrapposizione tra rappresentanza e governabilità che oggi arma i populismi e indebolisce chi lavora per risolvere i problemi. Poi la comunicazione dovrà fare la sua parte, rivedendo le sue categorie spaziotemporali (non più ordine sequenziale e lineare dei racconti, ridefinizione dei luoghi che creano informazioni) cui ancora fa riferimento, spostandosi massicciamente sui territori della psicologia cognitiva, delle teorie delle decisioni e delle neuroscienze, vere frontiere comunicative del nostro tempo. E forse potrà capire meglio come sorreggere e aiutare chi pretende di vincere elezioni, referendum o lotterie. Sapendo sempre che, prima, nessuna certezza è data. Soprattutto perché, come diceva Niels Bohr, uno dei più grandi fisici del Novecento (o forse qualcun altro: le citazioni più sono carine, meno sono attribuibili): “Le previsioni sono estremamente difficili. Specialmente quelle sul futuro”. 

E questo è tutto, per il momento.

Roma, 18/1/2017 (5. Fine)