Quello che proprio non va, nell’Italia del dopo 4 dicembre, è il clima di livida e compiaciuta precarietà nel quale affoga il dibattito pubblico (non il paese reale, che comincia a crescere con una certa solidità, grazie al buongoverno di questi anni). Al momento la classe dirigente nazionale non esprime – in nessuna delle sue componenti, caro Calenda – un disegno, un visione che risponda alla domanda di fondo (qual è il posto del nostro piccolo stivale nel mondo che cambia?). Tutti si aggirano nel buio come gattini ciechi o tristi sciacalli, e certo nessuno indica una prospettiva per la quale valga la pena battersi. Mentre colui che aveva regalato al paese qualche anno di speranze e buoni fatti, ha preferito cercare la rivincita a breve dopo il referendum, malgrado il buonsenso prima che un minimo di fiuto politico consigliasse respiri lunghi, pause di riflessione, adeguate meditazioni. Come si fa, sempre e dovunque, dopo una pesante sconfitta.
In Renzi ha prevalso invece la concitazione. Qualche solenne annuncio caduto nel vuoto (noi e non io, lavoro casa e mamme), poi un tourbillon di piccole e inutili iniziative (assemblee, magliette gialle, fiaccolate), di analisi sbagliate (abbiamo perso sul web, ma si può dire e pensare una sciocchezza simile?) e un fondo di permanente manovrismo mediatico-parlamentare di piccolo cabotaggio, fino all’approdo penoso di ieri. Un movimentismo basato sul niente: non un pensiero, non una idea nuova. Solo la preoccupazione di occupare la scena. (Anche stamattina, cazzo. Mentre scrivo, il segretario del principale partito di governo italiano – quello che ci illuse con la disintermediazione, ricordate – perde più di un’ora del suo tempo a fare la rassegna stampa: il giorno dopo il collasso della legge elettorale, la dichiarazione di Comey su Trump e il voto in Uk, non so se è chiaro…).
Per cui, a questo punto, la vera domanda diventa: sarà in grado di ritrovare la bussola, Matteo Renzi? Me lo chiedo con simpatia e stima nei confronti dell’uomo, ma ormai con una certa preoccupazione. Perché – per dirla sommariamente – l’uomo che per molti italiani ha costituito una significativa speranza, ho come l’impressione che non riesca a maturare, questo è il punto.
Nella rappresentazione politica contemporanea, un leader non può che conquistare la scena incarnando una visione, un sogno o quantomeno una novità. Altrimenti non sfonda il muro dell’opinione pubblica. Poi, se vince, la realtà fa la sua irruzione. Il sogno inevitabilmente evapora, a volte si infrange sugli scogli: può accadere. A quel punto il leader – se è tale – ha il duro compito di capire, di ricostruirsi, di cambiare in profondità (lo deve a chi ha creduto in lui, e anche a se stesso). Maturando. Cioè trasformando l’agilità della conquista nella robustezza della gestione, sostituendo alla leggerezza della speranza una solida affidabilità. Concetti che, tradotti in volgare, significano da ora in poi garantire senza tentennamenti la fine della legislatura, concepire il governo Gentiloni come la continuazione del “governo dei 1000 giorni” (concetto infantile da cassare brutalmente dal vocabolario), smetterla di giochicchiare con giornali e talk, studiare per costruire un nuovo programma (Nannicini, ci sei?), andare in cerca di una nuova classe dirigente per fare un nuovo partito (Martina e gli altri, ci siete?), magari prendersi una disintossicante vacanza dalla rete. Basta stronzate, Renzi.