Mi inoltro in un territorio che non è il mio per una riflessione – credo – di buon senso. Da qualche giorno Matteo Renzi ha riaperto il dibattito sulle prospettive del nostro paese, proponendo di portare il deficit al 2,9 per cinque anni, e mettere a disposizione una trentina di miliardi per tagliare le tasse e spingere la crescita. Problemi di cui vale la pena discutere, direi: eppure, da quando ha posto il tema, gli piovono addosso critiche da ogni parte, e simpaticamente contraddittorie tra loro. Commentatori ed economisti si schierano come un sol uomo a difesa dei cosiddetti parametri europei – gli sterili e improduttivi paletti che la UE piazza periodicamente per imporre comportamenti virtuosi agli Stati membri – però, nella furia antirenziana del momento, sono costretti a difendere insieme i parametri di Maastricht e il Fiscal Compact, varato proprio per correggere i patti del 1991 e del 1999. O a mettere in una infantile competizione la necessaria crescita degli investimenti con l’altrettanto necessario taglio delle tasse. O – nella versione dei tremebondi notisti politici – a paventare il rischio di isolamento dell’Italia in quell’Europa che – come è noto – scoppia di salute politica e slancio riformatore.
Nel mio piccolo, a Renzi mi sentirei di fare una sola critica, ma – ritengo – più fondata. E’ ormai abbastanza acclarato che, da solo, il taglio delle tasse non genera di per sé crescita. Perché se poi le aziende non investono in ricerca e sviluppo e – soprattutto e di conseguenza – non accrescono la loro produttività, il paese resta al palo. La tabella nel titolo è la più impietosa fotografia della condizione italiana. In assenza di riforme generali (ah, 4 dicembre…) e di uno scatto nella produttività del lavoro per ora lavorata, non ci saranno strategie economiche che potranno risolvere il gap strutturale che abbiamo accumulato negli ultimi 15-20 anni.
Ma perché non piace a nessuno – né a Renzi né ai suoi nemici – mettere al centro non la chiacchiera ideologica su tasse o investimenti, nemici o amici dell’Europa? Perché parlare di produttività significa parlare di più di industria 4.0 (che funziona), e poi di liberalizzazioni e privatizzazioni, delle corporazioni da smantellare, dei mille sindacati da contrastare, di come funziona la PA, etc… Significa parlare dei molti, troppi italiani in carne ed ossa che non hanno tutta sta voglia di lavorare, per capirci.