Tra Minopoli e Bannon

Il week end l’ho trascorso a Firenze: ho visto la fenomenale mostra della Abramovic e ho passeggiato in centro con mia moglie, godendomi una città che non amo per il suo provincialismo, ma che nelle giornate di sole terso che ci ha regalato ho trovato particolarmente bella, fascinosa e scintillante, e finanche pulita e ben curata. Poi sono stato alla Leopolda. Per antica simpatia verso chi l’ha inventata, perché il format finisce sempre per essere gradevole. E per mia moglie, piu che mai ultrà renziana.

Nei saloni ricolmi ho incontrato il popolo di sempre, depurato solo dai lobbisti per i quali la Leopolda non è più un luogo di potere: vecchi militanti politici (“Vela’, siamo sempre qua!”), nuovi militanti della rete (“Siamo amici su Facebook!”), dirigenti politici e parlamentari che percorrono la stazione in lungo e in largo in cerca di consenso, persone che muoiono dalla voglia di raccontarti le loro storie. Almeno in quattro mi hanno bloccato ieri mattina per interi quarti d’ora: io li ho ascoltati intanto perché sono un ragazzo ben educato, e poi non potevo certo scappare; ero in attesa dell’intervento del mio fratellone Umberto Minopoli, presente per la prima volta alla Leopolda. Da spettatore, immaginava, prima di essere coinvolto – mentre eravamo a cena mezzi ubriachi – dalla richiesta di parlare in assemblea. “Vieni alle 9.30”, gli avevano chiesto dallo scranno più alto della Leopolda (dove non siede Renzi…). Così ieri, di prima mattina, ero anche io lì, giusto per ascoltarlo. E mi sono dovuto sciroppare tre ore di interventi, visto che lo hanno piazzato subito prima delle conclusioni.

Umberto ha fatto un intervento bellissimo, nobile e antico, con qualche piccola variazione retorica ad usum loci (“mettici un po’ di birignao… siete meravigliosi… quanti siete…”, gli avevo suggerito). Un discorso denso e pieno zeppo di politica vera, che ha invocato resistenza attiva e organizzazione delle truppe, infiammando la platea e dando il là all’incendio emotivo divampato poi con la Bellanova e infine con l’apparizione del leader (roba studiata meglio che in un congresso Pci degli anni ’50: complimenti alla regia). Quando ce ne siamo tornati a casa, nelle chat fioccavano i complimenti per il mio amico di sempre.

Poi, esaurito il week end fiorentino, stamattina ho letto una lunga intervista di Bannon sul Corriere della Sera. Per dirla semplice: l’opposto del discorso di Umberto. Mentre Minopoli invoca una sanguigna battaglia politica da combattere corpo a corpo, Bannon studia cinicamente i freddi algoritmi delle banche dati; laddove Umberto immagina che l’Europa possa riprendere slancio e respiro dopo l’imponente manifestazione anti-Brexit dell’altro ieri, l’americano offre ai sovranisti una war room, sondaggi di profondità e “un paio di milioni di bucks, di verdoni” per il suo personale Risiko con il continente; Minopoli passerebbe il suo tempo a studiare e discutere quanto sia possibile e/o giusto allocare risorse in una determinata direzione, Bannon usa espressioni tipo “le pensioni, queste cose…”, dice con levità che Di Maio e Salvini si stanno facendo le “sea legs”, le gambe che servono a stare in piedi durante le tempeste, e così via. Due mondi lontani, inconciliabili. Che dico mondi: universi culturali, linguistici, estetici, distanti più di mille galassie.

E io penso al paradosso in cui mi ritrovo immerso, che rovescia il classico adagio del nostro tempo sulla dialettica tra scelte razionali e scelte emotive. La mia pancia dice Minopoli, pende quasi con commozione verso la sua visione del mondo ordinata, razionale e progressista. La testa mi dice Bannon: la sua disarmante e inquietante semplificazione sta vincendo. Mi sa proprio che non basteranno le chiamate alle armi del vecchio mondo per sconfiggerla.